198.
Massimo Domenico Bondone, il racconto di uno straordinario
“relittaro”
La
scoperta e l’esplorazione dei relitti sommersi è da
sempre una delle attività subacquee più affascinanti,
misteriose e impegnative che si possano fare in mare.
Ci
sono alcuni subacquei che di questa particolare tipologia
d’immersione si appassionano talmente tanto da farla
diventare praticamente uno stile di vita.
I cosiddetti “relittari”,
i “wreck divers”, sono una categoria di subacquei che
insieme agli speleosub contribuisce in maniera
determinante allo sviluppo della subacquea,
mettendo a punto e sperimentando attrezzature, tecniche
e procedure.
Le
navi affondano dove capita, e quindi spesso ci si trova
ad affrontare la sfida di situazioni d’immersione
difficili: alta profondità, scarsa visibilità, correnti,
tuffi lontano dalla costa, e tanto altro ancora.
Quella dei “relittari” è una comunità
piuttosto estesa,
all’interno della quale sono emersi alcuni personaggi
che hanno fatto ritrovamenti importanti. Il genovese Massimo Domenico Bondone è
uno di questi, perchè ha ottenuto
risultati straordinari in questo campo.
Sono molti i relitti di navi da lui scoperti e
identificati, le documentazioni video, le ricerche
storiche, e le immersioni a quote importanti condotte in
solitaria fino alla profondità di quasi 200 metri,
sempre cercando di portare più avanti il limite del
possibile in questo campo tanto pericoloso quanto
avvincente.
In
queste due interessanti interviste,
vincendo una sua sostanziale ritrosia a mettersi sotto i
riflettori,
Bondone ci
racconta
un pò
delle sue avvincenti storie. |
Intervista a Massimo Domenico Bondone
https://libreriainternazionaleilmare.blogspot.com/2018/05/massimo-domenico-bondone-il-racconto-di.html |
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Maggio
2018 - Massimo, abbiamo seguito le tue esplorazioni sui
social network ultimamente, ma ora che possiamo avere
uno spazio di discussione diverso, vorrei provare con te
a partire dall’inizio. Come sei diventato subacqueo,
come è partito tutto questo?
Direi che lo sono diventato in maniera naturale. Sono
nato e cresciuto a Genova, questo ha avuto un’importanza
fondamentale nella mia storia. Era il ’64/’65 (sono
classe 1957) e iniziavano a vedersi i primi sub con
bombole in giro. Il mare era a un passo dalla porta di
casa, per cui mettere una maschera Cressi con il tubo
incorporato e il galleggiante quasi impossibile da usare
e muovere i primi passi in questo mondo è stato del
tutto naturale. Poi iniziai a prendere un pochino di
attrezzatura acquistandola da Pesca Sub di Chiappini, il
negozio di riferimento per molti all’epoca.
A quei tempi a casa di soldi ce n’erano pochini, quindi
vendendo cozze raccolte in apnea presi una muta rigida
come cartone e poi un bibombola con Royal Mistral
finanziato dalle ostriche picchettate sulla nascente
diga del porto container di Genova ...
Hai frequentato qualche corso, hai avuto qualche maestro
in particolare?
No, corsi niente perché allora l’unica scuola era quella
di Marcante troppo distante da casa mia, senza
dimenticare che mia madre non era al corrente di questa
mia attività. Quindi comprai di nascosto il manuale
federale di immersione FIPS e mi creai una preparazione
teorica approssimata su quelle pagine. Un mio amico
apneista più esperto mi aveva dato una “sistemata” nel
modo di immergermi e nell’arte dell’assistenza in
superficie (lui mi prestava barca e motore e io in
cambio gli facevo da barcaiolo), unendo le due cose feci
la mia prima discesa con le bombole, a 20 metri da solo.
Fango schietto, visibilità pessima ma ricordo ancora
oggi la grande soddisfazione provata … pensavo sarei
riuscito a diventare come i miti di cui leggevo su
Mondo Sommerso! |
Evidentemente fu l’inizio di molte cose. Ora sei uno dei
personaggi di punta della scena, fai cose avanzatissime
usando la tecnologia dei rebreathers. Cosa ricordi del
periodo in cui si andava sui relitti solo usando la
comune aria compressa?
Ho molti ricordi di immersioni e relitti fra i 40 e i 70
metri, sempre considerando che nel frattempo avevo
intrapreso la professione di Operatore Tecnico Subacqueo
in giro per il mondo, arrivando in ultimo alla qualifica
di Diving Supervisor.
All’inizio degli anni ‘90 però mi resi conto di aver
raggiunto un limite. Avevamo esplorato il Bengasi
e il San Marco in Sardegna con i miei compagni di
immersione Stefano Masala e Enrico Saver. Erano
immersioni di 15 minuti di fondo a quasi 100 metri in
aria, andammo avanti cosi per un paio di anni poi mi
resi conto che, con quei mezzi, non si poteva andare
oltre.
Assolutamente, erano già delle esplorazioni ben oltre la
norma! Come sei arrivato a fare il passo successivo ed
entrare nel mondo della allora appena nata immersione
tecnica con miscele?
Fu determinante leggere la meravigliosa rivista
americana Aquacorps, diretta da Micheal Menduno e
importata e tradotta in Italia da Mario Arena, come
anche rinsaldare I rapporti con Stefano Baldi,
organizzatore della prima vera spedizione subacquea in
Italia, sul Viminale.
Dopo aver ben studiato i libri che iniziavano ad
arrivare da oltreoceano, mi procurai il programma di
decompressione multimiscela Abyss e a quel punto iniziò
un altro capitolo di immersioni più profonde, estese e
sicure. |
Ti conosciamo nel mondo dell’immersione tecnica come un
solitario, non hai mai fatto parte di qualche gruppo, o
messo insieme un team?
No, non ci sono mai riuscito, soprattutto perché ogni
volta che dicevo a qualcuno quali erano i miei progetti
e proponevo una collaborazione mi davano del matto!
Dopo qualche anno sei poi arrivato al rebreather...
Si, e devo dire che è stata una vera e propria
ripartenza. Fino al 2004 mi ero dedicato
all’esplorazione dei relitti profondi nella Sardegna
meridionale e nella zona di Genova. Davanti casa, in
senso letterale della parola, ne avevo trovati e
identificati alcuni, facendo immersioni in trimix
intorno ai 100 metri con tempi di fondo fino a 50
minuti, piuttosto importanti dato che usavo ancora il
circuito aperto. Assieme agli amici di Relitti.it, il
noto sito dedicato alla catalogazione degli scafi
sommersi, avevamo prodotto una grossa mole di
documentazione su quei siti, ma le spese di gestione
(carburante, gommone e gas respiratori) erano diventate
ingenti, cosi cercammo qualche sponsorizzazione. Quando
si resero conto che tutto veniva svolto usando un
gommone, senza grandi barche appoggio e mezzi
spettacolari, ci vennero negate! Avevo di nuovo
raggiunto un limite, e questa volta presi la decisione
di lasciar perdere tutto e chiuderla lì… poi però nel
2009, dopo tre anni di fermo totale, mi rimisi in gioco
con il rebreather. Fu un vero ricominciare da capo, con
più di 80 immersioni in un solo inverno sulla Haven,
una nave che diventò la mia palestra ideale,
appoggiandomi ad un diving di Arenzano. Ho usato e uso
ancora il Megalodon, perché pur essendoci ormai macchine
in un certo senso più avanzate, lo ritengo ancora il
migliore per le profondità delle mie esplorazioni e
l’affidabilità generale.
|
|
C’è qualche attrezzatura oltre il rebreather a cui sei
particolarmente legato, che continua ad essere parte del
tuo modo di andare sott’acqua?
Senza dubbio i miei erogatori! Mi porto in giro da tanti
anni una quindicina di MK5 Scubapro, continuano a
seguirmi ovunque, fra bombole appese alla cima e quelle
che mi porto addosso come bailout. Li revisiono
personalmente come tutta la mia attrezzatura e
continuano a funzionare benissimo, tutti tranne il mio
primo, l’ho portato in mare per talmente tanti anni che
i punti di saldatura si sono dissolti e mi si è
praticamente disintegrato in bocca!
Di tutti i relitti che hai esplorato, trovato e
identificato, quali ti sono rimasti particolarmente
cari, a prescindere da tutto?
Sicuramente il Mohawk Deer, famosissimo relitto
naufragato sul Monte di Portofino, è stato la palestra
per immersioni assai formativa; oggi lo vedo con occhi
diversi, ma all’epoca era davvero come se fosse appena
affondato, almeno per me! Poi l’U Boot U455 a
Portofino, su cui feci la prima identificazione certa e
che fu in parte il motivo del mio ritorno all’attività.
Un lavoro sviluppato con AIDMEN, Associazione Italiana
Documentazione Marittima e Navale, con la quale
collaboro da allora per le mie ricerche storiche. Per
ultimi direi il Kreta e l’HMS P311, il
primo perchè è una nave unica, ne sono state costruite
pochissime in tutta la seconda guerra mondiale.. Questo
è l’unico esistente visitabile da subacquei; erano delle
navi picchetto radar per guidare i caccia notturni
tedeschi, il Kreta era il punto di riferimento
per le operazioni in Mediterraneo, una nave armatissima
con un sistema radar all’avanguardia.
Assieme al Brandenburg, con cui ha condiviso la
stessa sorte (affondato nei pressi a 195 metri e da me
parzialmente esplorato nel 2017), si trova tra l’isola
di Capraia e la costa. Una grande soddisfazione trovare
una nave del genere, ho realizzato una bella
documentazione video che si può vedere, insieme a molte
altre cose e progetti, sulla mia pagina Facebook.
Del sommergibile P311 ti racconto dopo, mi ha
dato sensazioni del tutto diverse da queste appena
descritte, va tenuto separato essendo un caso unico. |
Con il suo piccolo gommone carico di attrezzatura, a
caccia di relitti |
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Come procedi nella fase di ricerca dei relitti da
esplorare?
Vorrei chiarire che la ricerca di relitti sommersi nel
nostro paese è compito riservato alle Autorità preposte,
quindi quando usiamo il termine, dobbiamo vederlo in
campo storico e come raccolta di dati già esistenti.
Semplicemente sfoglio uno dei tanti database disponibili
sul web, poi inizio a raccogliere e scremare le
informazioni che si trovano in merito, sempre su
Internet. Mi confronto con i dati raccolti dai miei
amici di Relitti.it e i loro libri pubblicati dalla
Magenes, divisi per regioni geografiche. Poi le carte
dell’Istituto Idrografico della Marina con cui collaboro
da svariato tempo, e in ultimo le informazioni dei
pescatori in zona e alcuni storici specializzati in navi
mercantili e militari. Con le moderne tecniche di pesca,
praticamente non esistono quasi più relitti realmente
sconosciuti, se è ferro qualcuno vi ha lasciato la rete,
prima o poi, per cui la ricerca “pura” nelle nostre
acque è quasi inesistente.
Ci sono dei subacquei che stimi particolarmente e sono
stati anche un’ispirazione per il tuo modo di andare
sott’acqua?
Non ho miti da seguire in questo mondo, ne ho
nell’alpinismo ma è un discorso personale lungo da
affrontare. Ho grande stima per Luigi Casati, con il
quale condivido alcune riflessioni e l’approccio
all’esplorazione. Come tutti sanno, è uno dei maggiori
speleosub a livello mondiale, posso dire che mi sono
trovato spesso a condividere, pur non essendoci mai
visti in persona, alcuni elementi del suo percorso umano
e sportivo. Cosi come ho rispetto per un altro
grandissimo speleosub: Jochen Hasenmayer, che ha aperto
la strada alle immersioni profonde in miscela
autogestite in grotta. È stato un pioniere nel senso più
vero della parola, tutti gli dobbiamo qualcosa in un
certo modo.
Ultimamente proprio leggendo alcuni scritti di Casati,
riflettevo sul fatto che, dopo tanti anni ti senti come
se stessi arrivando alla fine di un percorso lungo nel
quale hai dato molto e pensi sia assurdo debba finire
cosi, senza nessuno che porti avanti quello per cui hai
speso una vita intera. In una conversazione su Facebook,
dicevo che non c’era nessuno a cui passare il testimone
per proseguire l’attività esplorativa, non volevo
finisse tutto cosi, come spegnere un interruttore ...
Luigi rispose che poteva non essere come pensavo,
semplicemente non lo avevo ancora incontrato, per cui
... chissà cosa riserva ancora il futuro! |
Come ti prepari per le tue immersioni a quote estreme?
Mah, in realtà non faccio molte immersioni ogni anno.
Direi più o meno 20/25 tuffi in tutto. Le prime le
faccio a profondità crescente dai 25 ai 200 metri di
fondo, provando di volta in volta il funzionamento di
tutto e le mie reazioni.
Di cosa hai paura quando sei a quelle quote da solo?
Direi che esiste una paura irrazionale e una molto più
concreata, vanno tenute entrambe in giusta
considerazione ma in modo diverso. La mia paura
irrazionale è quella della pallonata incontrollata in
superficie. Con i carichi di gas inerte delle mie
immersioni sarebbe inevitabilmente un evento fatale.
Mentre la paura razionale che ho dovuto affrontare più
volte è quella di perdere la cima di risalita e il
gommone. Le mie sono esplorazioni in solitario e spesso
in passato le ho dovute condurre senza nessuno a bordo.
Non ritrovare il gommone sarebbe stata un’evenienza
dalle conseguenze preoccupanti ...
E la paura più grande che hai vissuto in immersione?
Sicuramente in Liguria, mentre facevo un’immersione al
largo della Punta del Faro di Portofino. Scendevo sotto
il faro e proseguivo verso il largo, seguendo una serie
di scogli separati tra loro. Ero in aria con un
bibombola 10 +10 e una piccola pony tank da 4 litri,
girando attorno ad una roccia sui 70 metri, mi ritrovai
completamente avvolto da una rete da pesca quasi
invisibile. Per fortuna la rete si lacerava facilmente
con le mani, ma mi ritrovai senza più aria, con tutti i
manometri a zero… Feci una pallonata controllata, senza
panicare e recuperando un pò di aria man mano che la
pressione ambiente diminuiva, premendo il bottone di
erogazione manuale del 2° stadio. A quel punto la
faccenda prese una piega quasi comica … affioro
ovviamente molto distante dal gommone ormeggiato, per
fortuna passa un tipo con una barchetta che strabuzza
gli occhi nel sentirsi chiedere un passaggio verso
terra. Feci subito una ricompressione in acqua
respirando ossigeno puro da un narghilé sempre pronto a
bordo e fu la decisione giusta, non so in quali
condizioni sarei arrivato alla camera di decompressione
a Genova! Un passaggio importante questo, mi fece
radicalmente cambiare approccio al volume del gas
trasportato in immersione. Anche oggi con il rebreather
utilizzo bombole da 4 litri nei tuffi profondi.
Chiamiamolo un portafortuna, fin’ora non l’ho mai dovuto
utilizzare e speriamo continui così.
|
Quale è stato il relitto più profondo che hai esplorato?
Il Brandemburg a 195 metri di profondità, il
relitto vicino al Kreta menzionato prima, un
grande posamine di oltre 100 metri di lunghezza. Un
ambiente estremo e molto difficile, buio con molte lenze
e reti, strutture poco riconoscibili a prima vista, una
situazione veramente al limite sopratutto per il
limitato tempo di fondo disponibile e le difficili
condizioni operative, mare e corrente in primis.
Le tue decompressioni logicamente esulano totalmente dal
normale contesto delle immersioni tecniche. Come le
gestisci e in base a quali linee guida?
Non mi va di parlarne troppo, spesso discutendo di
queste cose si finisce per innescare delle dinamiche
poco simpatiche, invece di confronti seri e costruttivi.
Pensando a quelle impegnative (quindi alle massime quote
che ho raggiunto e con tempi di fondo “interessanti”),
devo mettere in piedi una decompressione che non vada
troppo oltre le 7 ore in acqua. Più di quello sarebbe
per me veramente difficile da gestire e devo sempre
considerare l’elemento più critico, lo sviluppo di una
patologia da decompressione in risalita, con l’obbligo
di dovervi porre rimedio senza poter riemergere. Lavoro
molto quindi sulle finestre di ossigeno, un pò come se
stessi in circuito aperto, simulando ipotetici cambi di
gas a varie quote variando la pressione parziale. In
questo il rebreather è l’arma vincente, oltre al fatto
di consentire permanenze in acqua impensabili usando il
circuito aperto. |
Il sommergibile della Royal Navy britannica
HMS P311, |
|
Come ti regoli invece per la penetrazione all’interno
dei relitti che stai esplorando?
In questo campo entra in gioco il fatto che conosco bene
le navi, sono state il mio ambiente di lavoro per molti
anni e la Haven è stata un’ottima maestra in questo.
Sono quasi sempre in grado di capire dove sono e da che
parte andare, anche in ambienti molto grandi, per cui
non entro mai sagolato; inoltre, essendo un solitario,
non devo fare i conti con la sospensione alzata da altri
subacquei, un vantaggio non da poco!
In questi anni, anzi in questa vita dedicata al mare e
all’esplorazione dei relitti sommersi, quali sono stati
i tuoi maggiori momenti di soddisfazione, c’è anche
qualcosa che ti manca?
A pensarci bene mi manca molto la soddisfazione che si
prova quando si gode di un bel tuffo, andando a mare con
gli amici, assaporando il dopo immersione con i gommoni
affiancati, si aprono frigoriferi e ombrelloni e ci si
rilassa! Ho sempre una logistica molto serrata, dalle
quattro di mattina fino alle nove di sera, è poco il
tempo per godere il mare, ti parrà strano ma questa cosa
davvero mi da fastidio, in fondo non mi ritengo un
subacqueo “puro”, bensì un amante del mare a tutto
tondo.
.Una soddisfazione grandissima mi è arrivata anche con
la scoperta e identificazione del sommergibile inglese
HMS P311, a levante di Tavolara in Sardegna. |
È stata una cosa che ha fatto velocemente il giro del
mondo, una notizia riportata ovunque, pensa ci sono
circa una trentina di pagine su Google dedicate a questa
scoperta tutte da fonti diverse! Ma quello che mi ha
veramente emozionato è stato come alcuni tra i parenti
dell’equipaggio fossero ancora in contatto fra loro e,
appresa la notizia tramite la Associated Press, dopo
nemmeno ventiquattro ore erano tutti al corrente del
ritrovamento. Pensa all’emozione suscitata da questo
passaparola, conoscere anche se solo virtualmente
persone che per tutto questo tempo sono rimaste connesse
con questa memoria storica e familiare è stata una gran
cosa. Alcuni di loro, provenienti da diverse nazioni
molto distanti, si riunirono per una breve
commemorazione privata proprio sulla verticale del
relitto nel 2017.
Un ultima domanda. Quale sarebbe il tuo sogno dopo tutti
questi anni di immersioni? Vedere un posto che non hai
mai visto, un viaggio che non hai fatto, un relitto che
non hai trovato?
No, niente di tutto questo. Il mio sogno a questo punto
sarebbe avere una vera barca per il wreck diving,
attrezzata con la giusta strumentazione e un team di
persone motivate. Ecco, questo sarebbe il mio sogno,
penso mi permetterebbe di poter continuare ad andar per
mare anche se smettessi di immergermi e passare quel
famoso testimone. |
|
Vorrei aggiungere ancora qualche riga su come ho fatto
tutto questo, con un semplice gommone, abbastanza grande
da potermi permettere di viaggiare per tutto il Tirreno,
accompagnandomi in oltre 25.000 miglia di navigazione
tra Sicilia Sardegna, Corsica, Francia e il resto delle
isole e coste tirreniche. Fu l’amico Andrea Ghisotti a
contagiarmi, lui già lo faceva da anni, praticando il
campeggio nautico in autonomia; io ampliai l’idea
allestendo una “mini Calypso” gonfiabile, dal 1995 a
oggi fedele compagna di viaggi e immersioni. Il nome è
piuttosto scontato: Wreck Diver, con tanto di
targa lignea verniciata!
Ultima chicca, doverosa considerando l’ambito in cui
viene letta questa conversazione, i libri di mare. Ho
una piccola collezione che ogni tanto amplio,
ultimamente ho acquistato tutto quello che è disponibile
sull’HMS P311, sia per documentarmi sia per
soddisfazione personale. Ma tengo molto a due pezzi, uno
è l’edizione originale di “Naumachos”, scritto da
Stefano Carletti, testo per molti versi ancora oggi
attuale, ristampato da Mursia nella collana “Sempre
Blu”. Apparteneva a Ghisotti, quindi assolutamente
incedibile!
L’altro è un libro trovato per puro caso alla Libreria
il Mare parecchi anni fa, quando ancora era in Via
Ripetta. Ero in transito a Roma con un ritardo biblico,
e in attesa del volo successivo feci un giro in
libreria, dove mai ero stato. Trovai Marco Firrao e
Giulia D’Angelo, chiesi se avevano qualcosa di inusuale
da propormi (mi rendo conto ora quanto fosse strana la
mia richiesta ...). Mi fu detto butta l’occhio sui
piani alti (te pare facile pensai, i libri arrivano al
soffitto!)Beh, c’era una copia in lingua originale di “Buceando
entre las orcas” autore Ramon Bravo. Lo sfoglia e
vidi Bruno Vailati come coprotagonista quindi lo comprai
al volo compreso un mini vocabolario per aiuto alla
lettura.
Dopo tanti anni mi ritrovo virtualmente di nuovo
in Libreria il Mare, chi l’avrebbe mai detto!
Paolo Barone (Scilla Diving Center) |
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Massimo Domenico Bondone,
genovese, classe 1957, ha iniziato a immergersi
all'età di diciotto anni e da allora ha scoperto o
identificato molti relitti profondi, tra cui navi e
sommergibili della Seconda Guerra Mondiale.
E’
uno dei pochi subacquei italiani che si sono tuffati nel sud della
Francia e nelle isole di Corsica, Sardegna e Sicilia,
alla ricerca di relitti, documentando la loro storia e
conservando la memoria dei marinai che si persero con
queste navi.
I
ritrovamenti e le identificazioni più importanti di
Massimo Bondone sono stati il Bengasi
e il San Marco (due piroscafi armati
della Regia Marina italiana affondati a sud della
Sardegna), il Nina (un piroscafo
appartenente all’Ilva Alti Forni e Acciaierie d’Italia,
di Genova) e l’UJ2208 (un peschereccio
requisito dalla Kriegsmarine e trasformato in caccia
sommergibili), l’Uboot tedesco U455, la
SS Kreta (una nave da crociera trasformata in
pattugliatore della Kriegsmarine), la Geierfels
e la Freienfels
(due enormi piroscafi tedeschi ciascuno,
affondati mentre incrociavano nelle acque fra Livorno e
l’isola di Gorgona), il Brandenburg
(un posamine della Kriegsmarine tedesca) e l’HMS P311 (un sommergibile della
Royal Navy britannica)..
L'immersione più profonda di
Massimo Domenico Bondone è avvenuta al largo dell'isola
di Capraia sul
relitto
della nave tedesca Kreta nata
come piroscafo passeggeri francese Ile
de Beauté. In quell'occasione arrivò
a 168 metri di profondità, con 20' di tempo di fondo
reale più il tempo della discesa e 420' di run time. |
|
Ecco cosa ha da dire Massimo Bondone
sulle sue scoperte più significative.
Parlaci
dell’immersione sul SS Kreta, il pattugliatore della
Kriegsmarine che hai scoperto al largo di Livorno vicino
all’sola di Capraia.
Immergersi sul SS Kreta è stata una vera pietra miliare
per me. Con un team minimo, ogni immersione deve essere
preparata con molta attenzione, abbiamo solo una
possibilità quando siamo in mare aperto, a 25 miglia
dalla riva. Grazie a più di 20 immersioni profonde sui
due relitti vicino all'isola di Gorgona, non ho avuto
problemi di alcun tipo, con l'adeguato livello di
supporto in superficie e in acqua da parte dei miei
amici subacquei e del team di supporto.
Se vuoi
andare davvero in profondità, devi essere molto attento,
preparato e muoverti passo dopo passo, come sa ogni
subacqueo serio.
Qual è il
relitto più impressionante in cui ti sei tuffato e
perché?
Bene, una
risposta standard potrebbe essere... il prossimo.
Seriamente però, penso che sia il relitto del posamine
Brandenburg. Nel 2015 abbiamo avuto una sola possibilità
lì, ma è andata storta per motivi tecnici e non mi piace
lasciare un "lavoro" incompleto dietro di me. Guardando
al passato, ho un legame davvero forte con i relitti
intorno alla Sardegna, forse perché ho navigato migliaia
di miglia per fare quelle immersioni. Era un'epoca di
pura avventura, con meno pianificazione di oggi.
Quanto è
importante mostrare la storia dei relitti e conservarne
la memoria?
Sono
fermamente convinto che i relitti siano ancora vivi,
sono un collegamento del passato al presente. Se non le
troviamo, le identifichiamo e ne documentiamo la storia,
perdiamo la storia delle navi e degli uomini che le
hanno costruite e che con esse hanno navigato.
Non
abbiamo molto tempo, forse qualche decennio e poi il
tempo e gli elementi della Natura prevarranno. Credo che
la storia non sia fatta solo da maestri e ammiragli,
anche l'ultimo marinaio va ricordato. Viviamo nel terzo
millennio, la tecnologia ci aiuta a superare i limiti,
perciò dobbiamo usare la tecnologia per lasciare una
scia da seguire per chi verrà dopo di noi.
Tutte le
informazioni e i dettagli storici provengono dall’AIDMEN,
l'Associazione Italiana di Documentazione Marittima e
Navale. Sono degli storici molto abili e il loro ruolo
è molto importante per l'identificazione dei relitti.
Ad
esempio l'Uboat U455 tedesco non è stato trovato da me,
ma sono io quello che ha identificato l'Uboat in maniera
definitiva. In poche parole, grazie al suggerimento del
Presidente di AIDMEN, ho confrontato la disposizione e
il numero degli ombrinali con quello riportato su
Groener, un libro molto attendibile sulla Kriegsmarine
tedesca
Un'altra
squadra di sub ha trovato il Freienfel, io invece ho
trovato il Geierfel e li ho identificati entrambi.
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