196. La mia speleologia subacquea. Gigi Casati si racconta
di Gigi Casati, 3 aprile 2021
Ho iniziato nel 1985
a immergermi in grotta quando lo scambio
d'informazioni sull'evoluzione di tecniche e materiali
non era facilmente fruibile. In Italia, in grotta, si
andava in acqua con gli stessi materiali che più o meno
si utilizzavano in acque libere e quelle immersioni
erano considerate, non a torto da un subacqueo di acque
libere, come immersioni da pazzi.
Nel 1986 il mio incontro fortuito con
lo svizzero Jean Jacques Bolanz, fortissimo
speleosub svizzero, mi apre la porta della conoscenza
alle più evolute tecniche utilizzate in Francia,
Inghilterra e Svizzera perché è in questi paesi che si
stavano evolvendo le tecniche e i materiali d'immersione
nelle grotte ancora attuali, poi copiate e utilizzate
anche nella subacquea tecnica.
In quegli anni la comunicazione più
veloce era il telefono che, per le telefonate
internazionali, aveva costi elevati. |
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I convegni di speleologia subacquea
erano tenuti normalmente in Francia, naturalmente in
francese, e questo limitava molto la comprensione da
parte di che non conosceva la lingua.
La speleologia subacquea italiana
in quegli anni, era giocoforza limitata rispetto
alla speleologia subacquea d'oltralpe dove già si
utilizzavano da anni miscele, propulsori subacquei,
penta bombole da 20 1itri, ecc.
Il mondo della speleologia subacquea
straniera, era già pieno di persone fenomenali che in
quegli anni facevano immersioni che oggi, dopo
quarant’anni e gli attuali materiali e tecniche
decisamente più performanti, in pochi possono pensare di
fare.
Questo mondo di esplorazione e sperimentazione, mi ha
affascinato tanto da diventare il mio mondo.
Ricordo ancora come fosse ieri, la
silhouette di Patrick che scompare nel sifone di Fiume
Latte e il suo rientro con le luci che illuminano, come
per magia, la piccola vasca. Ricordo la mia incredulità
alle sue parole pre-immersione: starò via quattro ore al
massimo. Indossava due bombole da 4 litri e mi sembrava
un'assurdità. Ben presto compresi che il fine di questo
tipo di immersioni, era trovare la prosecuzione aerea e
non per forza la distanza e la profondità.
Ricordo la mia voglia di iniziare a
vedere oltre cioè, come dice il vocabolario Treccani,
Esplorare è: "Cercare di scoprire, di conoscere
quanto è sconosciuto o nascosto o quanto altri cerca di
tenere celato, servendosi dei mezzi opportuni". Il
desiderio era chiaro da tempo nella mia mente: andare
dove nessuno è mai andato è la molla principale che
mi spinge a superare i limiti del conosciuto. Sfide che
mi hanno portato a sperimentare tecniche, materiali,
profili decompressivi e la resistenza del mio organismo. |
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L'attrezzatura è il mezzo per raggiungere
il mio obiettivo.
Negli anni, in dipendenza del tipo di esplorazione,
l'approccio è cambiato notevolmente. Le immersioni nei
piccoli sifoni sono rimaste pressoché uguali: le piccole
bombole non sono sostituibili neanche da sistemi di
respirazione più evoluti per via del loro peso e degli
ingombri.
Gli impianti d'illuminazione
sono migliorati con la tecnologia a led, più
sicuri, con autonomie e con una resa luminosa
impensabili vent'anni fa. Gli impianti a carburo fonte
primaria d'illuminazione negli ambienti aerei,
nell'utilizzo post sifone erano una croce: spesso non si
accendevano e bisognava vuotare il tubo dall'acqua. In
profondità poi, sotto i 10 -15 metri si rischiava
l'esplosione dell'impianto e bisognava quindi
trasportare tutto in un contenitore stagno.
Le mute sono passate da umide a stagne
in tessuto spalmato da surf senza valvole di carico e
scarico, poi con le valvoline per poter andare oltre i
40-50 metri, in trilaminato e infine in neoprene
leggero. In umida (4-5 mm) dopo 8-10 ore di permanenza,
in grotte con piccoli sifoni da superare, si subiva il
freddo, quel freddo che penetrava nelle ossa.
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Il tessuto spalmato da surf,
leggerissimo, ci ha permesso di stare all'asciutto e
di evitare i problemi della muta umida, ma in acqua
questa muta è fredda e quando capita accidentalmente,
nonostante le precauzioni, di romperla, la protezione è
nulla. Poco piacevole con l'acqua che, dalle nostre
parti non supera mai i 10 gradi ma scende anche a 2
gradi. Il trilaminato con tenuta alle caviglie, è ottimo
per poter arrampicare con più libertà di movimento nei
post sifone, ma una volta immersi in acqua, il freddo si
fa sentire, anche perché si utilizzano sottomuta leggeri
per non soffrire nei tratti aerei e la sicurezza in caso
di rottura è decisamente bassa.
La muta in neoprene da 2 mm,
diventa per me la svolta: tessuto elastico che
permette movimenti di tutti i tipi nei post sifoni e
caldo quanto basta nei sifoni. Mi è capitato di bucarla
ma non è mai stato un problema tornare all'uscita della
grotta, mentre con il trilaminato, ho rotto una tenuta
e, dovendo attraversare un sifone di 145 metri di
lunghezza a 2 gradi di temperatura, non me la sono
goduta per niente.
Le calzature sono passate dagli stivali agli scarponi,
per arrivare alle scarpe da canyoning. Per il resto è
rimasto quasi tutto uguale.
Le immersioni nelle grosse sorgenti si sono evolute
ampiamente in questi ultimi trentacinque anni: si è
passati dal circuito aperto con decine di bombole, ai
rebreather con solo l'emergenza al seguito. I subacquei
più giovani che restano oggi impressionati nel vedere un
subacqueo con rebreather e 3 -4 stage, sarebbero molto
più stupiti nel vedere la quintalata di bombole usate
negli anni del circuito aperto. Per le lunghe immersioni
(qualche chilometro a -50 metri) o profonde (tra i -100
e i -200 metri) si utilizzavano anche 4-5 bombole da 20
litri sulla schiena, più stage anche da 20 litri che
venivano trasportate frontalmente o lateralmente.
Un'esplorazione speleo-subacquea, muoveva qualche
tonnellata di materiale, tra bombole di
progressione, bombole per la decompressione, bombole di
emergenza e bomboloni per ricaricare, oltre ai
compressori per ricaricare le numerose bombole a fine
immersione. |
I maialini (scooter) erano giganteschi
per poter raggiungere le autonomie e la potenza
richieste per raggiungere l'obbiettivo e trasportare
decine di bombole. Per le lunghe esplorazioni in quegli
anni si utilizzavano mailaini di oltre 100 kg e di 200
cm di lunghezza.
Tutto questo è stato superato grazie a
batterie di nuova tecnologia che permettono di avere
capacità enormi con pesi e dimensioni contenute e di
conseguenza, propulsori ridotti in pesi e dimensioni.
Rebreather è sinonimo quindi di grande rivoluzione
nel mondo esplorativo. Inizialmente i circuiti
semichiusi la fanno da padrone nel panorama esplorativo
per via della loro semplicità e la non dipendenza
all'elettronica di controllo. Poi gradualmente i
circuiti chiusi danno la svolta, grazie anche al
miglioramento dei sensori di ossigeno che annullano i
problemi di affidabilità iniziali.
Nel mondo speleo, coloro che esplorano,
preferiscono i circuiti chiusi meccanici per la loro
semplicità. |
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La scelta tra le mute
per questo tipo d'immersioni varia da neoprene a trilaminato.Il
discorso è sempre lo stesso: a livello di sicurezza il neoprene
anche in caso di rottura della cerniera garantisce un isolamento
anche se minimo, il trilaminato no. Il neoprene è facile da
riparare sul campo il trilaminato no. I sottomuta sotto il
neoprene possono essere meno spessi. Per tenersi caldi entrano
in campo anche i giubbetti elettrici e ormai se ne trovano di
tutti i tipi. Perfino fare la pipì all'esterno della muta, che a
fine anni ‘80, era ancora un problema, ha ora una soluzione
semplice.
Negli anni ‘80, pochi specialisti usavano le
miscele che costavano delle follie e l'esplorazione si
realizzava usando il più possibile l'aria, raggiungendo
permanenze e profondità oggi considerate più pericolose di
quanto siano. Non vorrei essere frainteso con tale affermazione
ma mi spiego subito. Sono state fatte migliaia d'immersioni
ad aria anche oltre i -100 metri e/o con tempi di permanenza
lunghi, ma il criterio di queste immersioni era completamente
diverso dal criterio usato oggi. Non era per molti riuscire a
compiere certe immersioni. Quelli che erano i più esperti, i più
portati, i più allenati e i più motivati, pervenivano a limiti
incredibili.
Oggi è tutto banalizzato e ovvio: pur di vendere
corsi, gli istruttori conniventi, in breve tempo danno l'OK agli
allievi, per raggiungere profondità elevate prima che maturino
l'esperienza necessaria, immersioni trimix comprese.
Nel mio passato ho compiuto immersioni profonde
ad aria, che oggi, dopo avere seguito e sperimentato le
innovazioni, non ripeterei più in quelle condizioni. Allora, pur
con il produttivo confronto con le esperienze altrui, la via
unica per le esplorazioni era quella.
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Ho appreso sul campo l'uso delle miscele
nel 1987/88
e la pratica era tremendamente futuristica: le miscele
venivano preparate con calma certosina, per travaso con
manometri di precisione perché non avevamo analizzatori.
Si travasavano anche miscele da bombola in bombola,
sommando gli eventuali errori e, dulcis in fundo,
l'ossigeno si usava normalmente a pressioni parziali di
2,2 bar o qualche cosa di più.
Non eravamo a conoscenza di calcoli
per prevenire la tossicità dell'ossigeno anzi, lo si
aumentava perché si pensava fosse una sicurezza. Oggi
difficilmente il contenuto delle bombole è un'incognita,
soprattutto se si ricarica con un minimo di cognizione
di causa.
Si conoscono le regole che hanno ridotto
l'uso dell'ossigeno, limitandolo a 1.6 di PpO2
ed è aumentata la sicurezza nelle immersioni con
miscele. |
L'inizio dell'uso delle miscele, ha
incrementato gli incidenti nelle grotte
e il motivo principale è stato l'apparente facilità che
ha aumentato il numero degli adepti e l'inesperienza con
cui si affrontava una nuova frontiera.
In realtà l'immersione rispetto
all'immersione profonda ad aria si è semplificata ma
l'esperienza non si acquisisce con i gas "ideali" né la
si può acquistare. Con l'iniziale uso dei rebreather
si è verificato lo stesso fenomeno: un livellamento
verso il basso e all'inizio, un incremento di incidenti.
Poi come per le miscele, il numero degli incidenti si è
attenuato. Con i rebreather, si è più snelli e rapidi
e non serve più saper gestire per chilometri grosse
quantità di bombole. La libertà che offre il circuito
chiuso nelle immersioni in grotta, dove i profili li
decide l'ambiente, è incredibile.
I problemi legati alla caduta
dell'argilla dai soffitti provocati dalle bolle d'aria
dei circuiti aperti, non ci sono più, e questo va a
beneficio della sicurezza durante la progressione. |
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Ho avuto la fortuna di poter
sperimentare diversi tipi di rebreather a profondità
allora mai raggiunte.
I semichiusi passivi, nel 2000 circa, erano utilizzati
al massimo fino a più o meno -80 metri e con non con
pochi dubbi.
Con diverse immersioni successive, mi
sono spinto fino a -186 metri nella grotta dell'Elefante
Bianco. Sperimentare, conoscere e analizzare ogni
volta che cambiavo attrezzatura era il mio percorso
per mantenermi dalla parte del formaggio.
Con il passaggio al circuito chiuso
meccanico, i vari subacquei ''da tastiera'' facevano
fosche previsioni. In realtà sono sceso diverse volte
oltre i -200 metri con un Voyager fino a
raggiungere la massima profondità di -212 metri nella
sorgente del Gorgazzo, con lo scooter fino a -130 metri,
poi a pinne per una distanza di 120 metri fino alla
profondità massima. Velocità, respirazione, sforzo, un
mix di situazioni sensazioni da tenere sotto controllo
dove non mi era concesso nessun minimo errore.
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Poi con un Copis Megalodon,
nuovamente a -212 metri nella sorgente di Makta Vrelo.
Alla fine mi sono costruito un rebreather con le
conoscenze acquisite usando le macchine precedenti, per
avere un mezzo ideale con il quale scendere, come ho
fatto, a -248 meti a Vrelo Une.
Una delle condizioni più intriganti
dell'esplorazione nelle grotte, è il
non sapere dove si andrà.
Il profilo dell'immersione lo scrive la grotta e non
l'esploratore: situazione affascinante. Occorre
essere pronti ad adattare l'immersione in base a quello
che si trova. Questa condizione obbliga a modificare
e innovare le attrezzature e le tecniche per essere in
grado risolvere le sorprese.
Molti profili sono a yo-yo e complicano
non poco la progressione sia a livello decompressivo che
per la compensazione. Normalmente si tende a considerare
la profondità massima raggiunta piuttosto che il profilo
delle quote e la distanza. Durante l'immersione in acque
libere, in qualsiasi momento si può cominciare a
risalire, in grotta bisogna ripercorrere la stessa
strada dell'andata raddoppiando i tempi di fondo,
salendo e scendendo nelle gallerie, creando uno stress
non indifferente all'organismo. |
Nel 1993 ho superato un sifone di -89
metri (con i computer attuali -87), sperimentare
tabelle, e riemergere soddisfatto dopo la difficile
immersione in OC. Ho superato anche il sifone di
Majerovo Vrelo (-105 metri ma ora si passa a -93)
impiegando lo stesso tempo in andata e ritorno.
Sperimentare su me stesso profili
decompressivi che nulla hanno a che vedere con
quelli schedulati normalmente in acqua, è stata un'altra
sfida raccolta e portata avanti.
Ora ho la soddisfazione di vedere diverse
persone utilizzare profili decompressivi simili ai miei
e differenti da quelli abitualmente utilizzati.
Al termine d'immersioni profonde o lunghe
respirando aria, si riemergeva mediamente con una
condizione di stanchezza che si protraeva durante la
giornata; le lunghe decompressioni ad aria erano
pesanti, ma quando si usava il nitrox o l'ossigeno le
cose cambiavano un pò e ci si sentiva decisamente
meglio. L'utilizzo di "giclette" (20% di elio) ha
contribuito ulteriormente a ridurre la sensazione di
stanchezza. |
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Con le immersioni in trimix, le cose
cambiavano notevolmente perché, in circuito aperto,
le lunghe permanenze, sette o più ore, nelle acque
gelide erano ardue da sopportare per via del freddo dei
gas che entravano nei polmoni. Da qui l'utilizzo di
"campane", per completare le ultime ore di
decompressione. Nelle campane si sta all'asciutto e
al loro interno, grazie al calore emanato dal proprio
corpo, la temperatura è sempre di circa 2-3 gradi
maggiore dell'acqua.
All'interno si siede comodi e si può mangiare e bere
senza gli accorgimenti utilizzati quando si è in acqua.
Con l'utilizzo dei circuiti chiusi o semi
chiusi, grazie al loro sistema di funzionamento, la
sensazione di freddo causata dalla respirazione diretta
del gas da un secondo stadio, si è allungata di circa
tre ore. Le decompressioni, per vari motivi,
quali la sperimentazione personale e l'uso di
rebreather, si sono accorciate di oltre il 50%
rispetto ai tempi del circuito aperto. Le due cose fanno
sì che la sopportazione del freddo nelle lunghe
immersioni sia più agevole per l'organismo e le campane
sono utilizzate eventualmente più come rifugio nel caso
di problemi.
Tanti anni d'immersioni nelle grotte,
mi hanno insegnato un'infinità di cose, ma in
primis, la sensazione di essere un piccolo esploratore e
vedere dei luoghi immensamente sconosciuti,
sperimentando tecniche e portando al limite l'organismo,
inventando soluzioni, adattando materiali e superare i
limiti di utilizzo degli stessi.
Ho desiderato comprendere le leggi fisiche e magari,
aprire o facilitare la via a nuovi esploratori o a
semplici frequentatori di grotte. Ho imparato a
conoscere un ambiente leggendario che può incutere paura
e soggezione. Ho imparato molte cose sulla fragilità del
nostro pianeta. Ho conosciuto persone, in giro per il
mondo, che mi hanno sempre trasmesso accoglienza e
positività. |
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