163. I modelli decompressivi a doppia fase, ovvero i “modelli a bolle”
di Luca Cicali (tratto
dal libro “Oltre la curva”)
|
"Oltre
la curva" è un libro davvero interessante rivolto ai
subacquei che vogliano spingersi oltre la famosa e
mitizzata "curva di sicurezza" e approfondire la teoria
della decompressione.
Tra i
tanti argomenti trattati spiega anche come si altera il
funzionamento dell’organismo umano respirando aria
compressa e quali modelli matematici sono stati messi a
punto per simulare il suo comportamento in immersione,
in modo da realizzare una corretta strategia
decompressiva.
Lo stile dell'autore è
colloquiale ma rigoroso, e rende "digeribile" anche ai
non addetti ai lavori un argomento che spesso viene
considerato difficile e misterioso e che è ritenuto
materia riservata ai subacquei tecnici
super-specialisti.
Mi riferisco in particolare ai modelli decompressivi a
doppia fase (i cd. modelli a bolle), che sono sempre più
diffusi e applicati nei computer subacquei odierni.
In
questo estratto dal libro di Luca Cicali si cerca
finalmente di fare un po’ di chiarezza sull'argomento,
trattando in particolare del VPM (Varying Permeability
Model). |
Su cosa si basano gli
algoritmi dei nostri computer?
Quasi tutti i computer
che si trovano al polso dei subacquei di tutto il mondo
sono programmati secondo algoritmi decompressivi
derivati dal modello di Haldane, ovvero i
cosiddetti "modelli liquidi". La teoria di
Haldane e i modelli decompressivi derivati da essa,
inclusi i "valori M" di Workmann e Bühlmann, si
basa su una profonda semplificazione di un fenomeno
fisiologico estremamente complesso, in base al quale si
assume che il gas inerte disciolto nei tessuti sia
sempre presente esclusivamente in forma liquida,
e non in forma gassosa, ovvero all’interno di bolle,
purché si mantenga il livello di sovra saturazione al di
sotto di un certo limite. Per questo sono oggi chiamati
modelli "liquidi".
Ad Haldane non
importava molto capire come e quando effettivamente le
bolle si formano ed evolvono, egli era invece fortemente
interessato a trovare delle modalità operative di
sicurezza, che scongiurassero o limitassero al massimo
il rischio di malattia da decompressione per il lavoro
in ambiente pressurizzato. In sostanza, i modelli
liquidi privilegiano l’efficacia rispetto alla
aderenza alla fisiologia umana. Per dirla come il
dottor Hamilton, grande studioso statunitense e autore
delle tabelle decompressive del NOOA: “ciò che
funziona, funziona!”
Malgrado anche il
professor Bühlmann abbia agito nel solco della teoria
haldaneana, già dai tempi di Robert Workman c’erano
forti sospetti che la formazione di bolle non fosse un
fenomeno “on-off”, cioè determinato esclusivamente dal
rapporto di sovra-saturazione, dai valori M o dagli
analoghi parametri dello ZH-L16.
La presenza di
microbolle nell’organismo umano dopo una immersione
fu dimostrata infatti negli anni successivi, grazie alle
misurazioni eco-doppler. Questa scoperta spostò
l’obiettivo della ricerca sui modelli decompressivi
verso la comprensione delle leggi che governano
l’evoluzione dinamica di tali bolle, e sulla stima del
loro effettivo grado di pericolosità.
Gli indizi che sin
dagli anni ‘50 facevano pensare alla presenza di bolle
nei tessuti anche in immersioni prive di incidenti erano
molteplici, in particolare la asimmetria delle fasi
saturazione e desaturazione. La desaturazione di
fatto avviene con tempi più lunghi di quelli calcolabili
con le equazioni esponenziali usate nella fase di
saturazione, e questo anche perché parte dell’inerte,
anziché essere disciolto nel sangue, resta intrappolato
nelle bolle.
I limiti dei modelli
liquidi furono evidenziati anche dall’efficacia delle
soste profonde, ancora tuttavia da dimostrare, nel
dare maggiore sicurezza all’immersione.
Lo sforzo di
comprensione e di miglioramento del modello di
riferimento ha portato allo sviluppo dei cosiddetti a
modelli doppia fase o "modelli a bolle" (bubble
models), i quali si distinguono dai precedenti
proprio perché tengono conto che in qualunque
immersione, svolta con qualunque profilo e a qualunque
profondità, non tutto l’inerte presente nei tessuti si
trova in forma disciolta, ma in piccola parte è anche
in forma gassosa, contenuto all’interno di bollicine
microscopiche. E’ un percorso di ricerca irto
difficoltà, visto che l’obiettivo è quello di rendere
ottimo ciò che è già buono, ovvero ridurre a percentuali
residuali i già bassi tassi di incidenti riscontrati
nelle immersioni professionali e sportive.
|
I modelli a bolle
Proviamo allora a
descrive per sommi capi il funzionamento del modello a
bolle di maggior successo di cui disponiamo, il VPM (Varying
Permeability Model), cominciando col risolvere
un apparente mistero: si ha evidenza sperimentale che
le bolle sono presenti dopo qualunque immersione,
anche se entro curva o condotta nel rispetto dei tempi
di decompressione previsti da computer o tabelle. Si sa
anche, però, che per generare bolle nel sangue o nei
tessuti occorrerebbero condizioni di sovra-saturazione
molto elevate, non raggiungibili nelle normali
immersioni sportive (sovrasaturazione significa che la
tensione di inerte disciolto nei tessuti è superiore
alla pressione ambiente). Se quindi le bolle ci sono ma
non si generano durante l’immersione non c’è che una
spiegazione: evidentemente erano già presenti prima
del tuffo, anche senza aver fatto altre immersioni
da mesi o anni.
|
Da dove saltano fuori
queste bolle?
Si è potuto dimostrare
che sono sempre presenti nel nostro organismo i
cosiddetti "semi" o "nuclei di bolle", o micronuclei,
bollicine di dimensioni microscopiche, di numero
pressoché costante, mai viste o rivelate da nessuno
strumento disponibile date le loro esigue dimensioni.
Esse sono generate da varie cause naturali legate
all’ordinaria attività muscolare, e hanno dimensioni
addirittura dell’ordine del micron (un millesimo di
millimetro, quasi un decimo delle dimensioni di un
globulo rosso, per intenderci). Tali microbolle restano
stabili grazie alla presenza delle sostanze surfattanti,
come gli acidi grassi, che si trovano sempre nei
liquidi e tessuti organici, e che riescono a
stabilizzarle opponendosi alle forze che tentano di
disgregarle collassandole: la pressione esterna
(idrostatica) e la tensione superficiale.
Anche se di dimensioni
ridottissime, i micronuclei possono subire una
crescita durante la fase di risalita di una
immersione, che li rende vere e proprie bolle rivelabili
ed in certi casi pericolose. Infatti, in condizioni di
sovra-saturazione, l’inerte in eccesso ha l’opportunità
di trasferirsi all’interno di una bolla già esistente
oltre che rimanere disciolto. Se non pre-esistessero
questi nuclei di bolle, la PDD praticamente non
esisterebbe per le ordinarie immersioni, perché come
abbiamo detto i valori di sovrasaturazione in gioco in
immersioni anche profonde non sono sufficienti a
generarle. Quindi le odiose bolle ci sono anche se si
sono rispettati i criteri imposti dai vari modelli
decompressivi utilizzati, non tutte possono essere
eliminate a dovere, e parte di esse sono candidate a
crescere di volume durante la fase di risalita. I
modelli a bolle dunque cercano di determinare un profilo
di risalita capace di limitare la crescita di bolle già
esistenti, in misura tale che esse non diventino di
dimensioni pericolose.
|
Il “tira e spingi”
delle bolle
Ma cos’è una bolla?
Con una grossolana approssimazione potremmo dire che è
una pallina di gas interamente circondata dal fluido, o
da un tessuto ad esso assimilabile. La sua travagliata
esistenza dipende da un equilibrio di forze
contrapposte, a loro volta legate a molteplici e
variabili fattori.
La bolla può essere
paragonata ad un palloncino di gomma pieno d’aria:
l’unica fondamentale differenza è che la sua
superficie è permeabile, e quindi le molecole del
gas interno tendono a sciogliersi nel liquido
circostante, cioè ad uscire dalla bolla, e le molecole
di gas disciolto nel liquido tendono a rientrare nel
gas, cioè nella bolla, sempre secondo la ben nota legge
di Henry.
Il processo, allo
stesso identico modo degli esempi fatti per spiegare la
legge di Henry, è regolato dalla differenza tra
pressione interna del gas nella bolla e tensione del
medesimo gas nel liquido circostante.
Consideriamo ora una
bolla gassosa immersa in un fluido organico, al quale è
assimilabile un tessuto del nostro organismo.
Le pressioni in gioco
sono:
-
la pressione
interna del gas e il contributo delle sostanze
surfattanti, che spingono dall’interno della bolla
verso l’esterno;
-
la pressione
esterna e la tensione superficiale che spingono
dall’esterno della bolla verso l’interno.
|
|
La tensione
superficiale si manifesta su qualunque alla
superficie di separazione tra liquido e gas, a causa
della differenza di densità tra le due fasi.
In questa specie di
tiro alla fune che avviene in corrispondenza della
superficie della bolla abbiamo quindi due squadre che si
fronteggiano: da una parte la pressione interna con il
rinforzo dei surfattanti, dall’altra la pressione
esterna alleata della tensione superficiale.
L’equilibrio delle spinte di queste due squadre
determina in ogni istante il volume (e quindi il raggio)
della bolla.
Questa relazione
vale in condizioni di equilibrio, cioè quando la
bolla ha un raggio stabile. Naturalmente questo
equilibrio è continuamente alterato dal fatto che la
pressione esterna dipende dalla profondità, quella
interna dal continuo passaggio di gas nei due sensi
attraverso la superficie della bolla, governato dalla
legge di Henry, mentre tensione superficiale e pressione
dovuta ai surfattanti dipendono dal raggio istantaneo
della bolla.
Tramite il modello VPM
si è riusciti a schematizzare questi fenomeni,
scoprendo che le microbolle esistenti tendono a crescere
o a collassare durante la risalita da una immersione a
seconda delle loro dimensioni iniziali.
|
Storia e benchmark del
VPM
Tralasciando i primi
modelli di computer subacquei, apparsi negli anni ’60,
il modello a permeabilità variabile (VPM) fu
sviluppato in un arco di tempo che va dalla seconda metà
degli anni ‘80 ai primi anni 2000. Il lavoro iniziale di
ricerca fu svolto a partire dagli anni ’70 dal prof.
David Yount, del dipartimento di fisica e astronomia
dell’Università delle isole Hawaii, che pubblicò alcuni
articoli scientifici sul tema della formazione e
dinamica delle bolle, e successivamente giunse alla
progettazione di un modello per il calcolo decompressivo
nelle immersioni subacquee.
Lo sviluppo delle prime
tabelle decompressive basate sul VPM risale al 1986,
grazie al lavoro di David Yount e Don C. Hoffman.
L’algoritmo del VPM da loro sviluppato fu reso
disponibile alla comunità dei programmatori nel 1995.
Nel frattempo Eric B. Maiken aveva sviluppato a partire
dal 1990 la codifica software del modello
decompressivo, includendo la possibilità di utilizzare
miscele nitrox e trimix, e distribuì questo programma
sviluppato in linguaggio Basic nel 1994. Da allora il
modello fu lungamente rivisto, modificato, adattato e
testato con il contributo di ricercatori, “tech divers”,
appassionati e specialisti, tra i quali in particolare
Erik C. Baker.
Nel 2000, anno della
morte del professor Yount, il modello VPM fu
finalizzato, ed Erik Baker completò la codifica del
programma in linguaggio Fortran.
Ci vollero ancora due
anni per ottenere nel 2002 la versione che costituisce
l’attuale standard del modello VPM, il "VPM-B".
Rispetto ai più
collaudati modelli liquidi, il VPM produce mediamente
profili con tappe iniziali più profonde e tappe
vicine alla superficie più brevi.
Questa diversità
rispetto ai modelli haldaneani si spiega con lo
schiacciamento dei nuclei di bolle nella fase di
discesa, più accentuato per i compartimenti lenti.
Naturalmente maggiore è lo schiacciamento dei nuclei e
minore è l’onere decompressivo, quindi saranno i
compartimenti lenti ad essere meno penalizzati.
Poiché le tappe più
profonde sono dovute ai compartimenti veloci mentre
quelle più superficiali ai compartimenti lenti, ne
risulta una accentuazione di profondità e durata
delle tappe più profonde e l’alleggerimento di
quelle più superficiali. Tutto questo ha maggior effetto
nelle immersioni più profonde, per le quali lo
schiacciamento può raggiungere valori più elevati.
I tempi di non
decompressione (NDL) del VPM per immersioni in aria
risultano sostanzialmente in linea con quanto previsto
dai modelli "liquidi".
Anche il VPM non sfugge
a critiche, come del resto ogni altro modello
decompressivo, in particolare circa le approssimazioni e
assunzioni che debbono essere accettate perché il
modello funzioni. Il suo maggior pregio è essere un
modello più aderente alla realtà rispetto ai modelli
liquidi, ed è attualmente molto utilizzato per la
pianificazione di immersioni "tecniche".
Il vantaggio nel suo
utilizzo è pratico ma anche di prospettiva, in quanto ha
aperto una strada completamente nuova e più coerente,
allettante soprattutto per i margini di miglioramento e
perfezionamento che potrà garantire in futuro.
|
Come “ragiona” il VPM
Ciò che il VPM deve
stimare e tenere sotto controllo è il gas totale
contenuto nelle bolle che cresceranno di volume,
determinato dal gradiente di sovrasaturazione. Il
modello VPM adotta sia i criteri del modello liquido di
Bühlmann a sedici compartimenti (ZH-L16) per misurare la
quantità di inerte disciolto nei tessuti, sia i criteri
del modello a bolle per stimare il volume totale di
inerte presente in forma gassosa.
Il VPM calcola un
profilo di risalita ottimale in modo che il volume
totale di gas accumulato nelle bolle al termine
dell’intero processo sia al di sotto di un valore
limite, ritenuto tollerabile dall’organismo senza
dare problemi di PDD.
Il volume finale di
inerte in forma gassosa, contenuto in bolle con raggio
superiore a quello critico, dipende dal gradiente di
sovrasaturazione G, cioè dal profilo di risalita
adottato.
Permettere un G grande,
ovvero una ampia sovrasaturazione, e quindi soste
decompressive di minor numero e durata, comporta
accettare un maggior volume finale di gas nelle bolle, e
quindi una situazione meno conservativa. Se invece si
fissa G ad un valore più contenuto, il computer richiede
decompressioni più lunghe ma consente una minore
crescita delle bolle, e quindi comporta maggiore
sicurezza.
Il VPM deve trovare il
maggior valore di G che comporti un volume totale di gas
nelle bolle entro il limite consentito al termine del
processo. E’ un po’ come dire: conosciuto in anticipo il
limite massimo ammissibile per volume totale di gas
entro le bolle, ottenuto come risultato di un processo
evolutivo complesso, bisogna determinare il parametro
che ne determina le condizioni iniziali, ovvero il
gradiente di sovrasaturazione G, in base al quale
stabilire il profilo decompressivo.
Il metodo di
ragionamento del VPM può essere sintetizzato così:
-
fissa un valore di
G iniziale molto ridotto, quindi estremamente
conservativo, secondo un criterio rigido;
-
stima il profilo e
quindi il tempo totale di risalita necessario a non
superare G per ogni compartimento, in questo è
simile ad un modello "liquido";
-
stima in funzione
di G il numero di nuclei di bolle attivati;
-
stima il volume
totale di gas che finirà nelle bolle in tutto il
tempo di risalita più un intervallo di superficie di
24 o 48 ore;
-
confronta il valore
ottenuto con il valore limite massimo accettabile;
se esso è inferiore al limite ricomincia il processo
a partire da un valore di G incrementato.
L’intero procedimento
con confronto finale viene quindi ripetuto finché il
risultato ottenuto sia sufficientemente vicino al
valore massimo tollerabile senza superarlo. Quando
ciò avviene il profilo corrispondente è considerato
quello finale da adottare per la risalita.
Tenere conto della
legge di Boyle, ovvero all’espansione di una bolla
durante la risalita a causa della riduzione di pressione
idrostatica, equivale nel VPM ad introdurre un
fattore di conservativismo nel modello, che prende
in questo modo il nome di "VPM-B", (B sta per Boyle).
Questo prolunga i tempi di permanenza per ciascuna tappa
e quindi il tempo totale di decompressione, maggiormente
per le tappe vicine alla superficie in quanto la legge
di Boyle esercita la sua influenza soprattutto alle
basse profondità.
La versione "B" del VMP
ha visto la luce definitiva nel 2002, e costituisce la
versione del VPM correntemente utilizzata.
|
VPM - Varying
Permeability Model
Il nome dato al
modello, che è detto a "permeabilità variabile",
fa riferimento alle proprietà chimico fisiche dello
strato di surfattante che condiziona la permeabilità
della bolla al passaggio di gas, in entrata ed in
uscita.
Nella fase di
compressione, i surfattanti riescono a garantire la
permeabilità sino ad un pressione esterna di circa 9
bar, oltre la quale essa è compromessa. In fase di
riduzione della pressione, la permeabilità è invece
sempre garantita, qualunque sia la pressione di partenza
e l’entità della diminuzione di pressione.
Il VPM ha come
obiettivo l’individuazione del profilo di risalita
ottimale che limiti la crescita dei nuclei di bolle,
tenendo sotto controllo il volume totale di gas
acquisito da tali nuclei non solo durante la fase di
risalita da una immersione, ma anche entro un prefissato
periodo successivo al suo termine, durante il quale il
processo di crescita di volume prosegue.
Ipotizzando una
immersione quadra, ecco i passi fondamentali che il
modello esegue:
-
misura la quantità
di inerte disciolto in ogni compartimento e tiene
sotto controllo il volume dei nuclei di bolle in
ogni fase dell’immersione;
-
per ciascun
compartimento, stima il numero di bolle che durante
la risalita tenderanno a crescere di volume;
-
valuta l’entità di
tale accrescimento;
-
calcola il miglior
profilo decompressivo che consenta di mantenere
entro un valore limite di sicurezza la quantità
totale di gas contenuto in queste bolle.
Specialmente nella
parte che riguarda il calcolo della decompressione, il
funzionamento di dettaglio del VPM e la sua trattazione
matematica sono materia da super specialisti. La
complessità nella predizione del comportamento dinamico
di una bolla è dovuta all’interdipendenza dei parametri
che compaiono nelle leggi che ne influenzano le
dimensioni.
Vediamo dunque cosa
succede ad una bolla immersa in un liquido organico, e
quindi contenente nuclei di bolle in fase di
permeabilità, quando esso viene sottoposto ad una rapida
compressione seguita, dopo un tempo sufficiente a
raggiungere la saturazione, da un altrettanto rapida
decompressione, ipotizzando che questo processo sia a
grandi linee simile a ciò che succede durante una
immersione. Durante la compressione rapida, infatti,
succede che le bolle si schiacciano. Questo perché
mentre il gas si discioglie nei tessuti lentamente,
con legge esponenziale, quello all’interno delle
bolle, che è in fase gassosa, si adegua immediatamente
alla pressione esterna, e quindi aumenta
repentinamente. Perciò la differenza tra pressione
interna ed esterna favorisce il passaggio di gas
dall’interno della bolla al liquido esterno in
soluzione, come prevede la legge di Henry. Ciò significa
che lo schiacciamento delle bolle è tanto maggiore
quanto maggiore è la velocità di discesa di una
immersione e tanto più è lento il compartimento
considerato.
Questo è un importante
fenomeno: lo schiacciamento (crushing) non
dipende da quanto si va in profondità, ma da quanto ci
si va velocemente. E avere i nuclei di bolle di
dimensioni ridotte all’inizio della risalita consente
margini di sicurezza maggiori.
Atteso un tempo
sufficiente perché la tensione di azoto nel liquido si
avvicini a quella di saturazione, torniamo di colpo alla
pressione iniziale, depressurizzando. La tensione nel
liquido inizia a ridursi con legge esponenziale, mentre
i nuclei di bolle si trovano ora di fronte ad un bivio.
Alcuni risulteranno "attivati", altri no. Quelli
attivati tenderanno a crescere di volume poiché
permetteranno al gas disciolto di penetrare al proprio
interno, arrivando a dimensioni ben superiori a quelle
che avevano ancor prima della compressione, mentre
quelli non attivati tenderanno a collassare, divenendo
inoffensivi.
Quali nuclei si
attivano e perché? Senza entrare in dettagli complessi
da analizzare in termini matematici, risulta che si
attivano solo i nuclei che hanno dimensioni superiori ad
un certo raggio, detto "raggio critico". Il raggio
critico non è un dato fisso del problema, ma dipende
dalle proprietà superficiali della bolla e dal gradiente
di sovrasaturazione, ovvero dalla differenza tra
tensione nei tessuti e pressione ambiente. Proprio lo
stesso parametro che aveva identificato Haldane per
stabilire le condizioni di risalita sicura da una
immersione. Maggiore è il gradiente di
sovrasaturazione, e minore è il raggio critico.
Quindi in fase di desaturazione, i nuclei di bolla più
piccoli del raggio critico tendono a collassare perché
il gas fuoriesce da essi sciogliendosi nel liquido
circostante, mentre quelli più grandi di tale raggio
tendono invece ad ingrandirsi, per via del gas che vi si
riversa dal liquido nel quale è disciolto. |
Abbiamo rappresentato
questa situazione nell'immagine a lato, che mostra due
ipotetiche "macro foto", relative ai nuclei di bolla
prima e dopo l’applicazione del gradiente di
sovrasaturazione, a causa del quale solo le bolle con
raggio maggiore del raggio critico si sono attivate.
Nella figura di
sinistra sono mostrate le bolle in un ipotetico tessuto
prima dell’applicazione del gradiente, e in quella di
destra sono state evidenziate quelle che si sono
attivate, cioè che tenderanno ad ingrandirsi, dopo
l’applicazione del gradiente. Le bolle attivate sono
proprio quelle che hanno un raggio maggiore del raggio
critico. |
|
Riassumendo
Con "sovrasaturazione" intendiamo
la differenza tra la tensione di inerte nei tessuti e
la pressione ambiente, situazione tipica di una fase
finale di risalita da una immersione. Poiché nei tessuti
di un subacqueo in immersione esistono sempre nuclei
stabili aventi varie dimensioni, quando durante la
risalita la tensione di inerte nei tessuti supera la
pressione ambiente alcuni di essi cresceranno di
dimensioni (quelli con raggio superiore al raggio
critico) e altri collasseranno (quelli con raggio
inferiore al raggio critico). Maggiore è la
sovrasaturazione e minore il raggio critico, a partire
dal quale i nuclei si attivano, cioè tendono a crescere
di volume. |
|
Ma quante sono le bolle
che hanno un raggio superiore a quello critico, e che
quindi tenderanno a crescere durante la risalita? E’ una
domanda alla quale si può dare risposta solo in termini
statistici. Se potessimo ipoteticamente esaminare un
tessuto vitale, isolarne una porzione provare a contare
le microbolle presenti e a "catalogarle" per grandezza,
potremmo verificare che più le bolle sono grandi e più
sono difficili da trovare (fortunatamente), un po’ come
le pietre preziose.
La distribuzione
statistica delle dimensioni delle bolle è quindi
chiamata "esponenziale" (che coincidenza…), il che vuol
dire che più ci si sposta verso destra sull’asse
orizzontale (bolle grandi) e più il numero di esse è
piccolo, come mostrato nel grafico di fianco
(sull’asse orizzontale la grandezza delle bolle e su
quello verticale il loro numero).
Sappiamo che una
intensa attività fisica pre-immersione fa aumentarne il
numero dei nuclei di bolle, ma un maggior numero di
nuclei significa maggiore possibilità per il gas inerte
di entrarvi in fase di sovrasaturazione, e quindi più
probabilità che essi si trasformino da semi microscopici
e inoffensivi in bolle voluminose capaci di darci
problemi anche gravi. Quindi è senz’altro un bene avere
un fisico allentato, ma non è un bene farse una
immersione impegnativa o profonda appena usciti dalla
palestra o ansimanti per uno sforzo fisico prolungato. |
Torna su all'inizio della pagina
|