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di Tecnica & Medicina

 

 

133. Decompressione in parete

di Stefano Ruia

 

Abbandonare la cima di discesa e spostarsi verso la parete per svolgere più di un’ora di decompressione, senza nessun segnale in superficie, può apparire una follia. Tuttavia, in certe condizioni questa scelta si può rivelare sicura e vincente.

 

La sicurezza è un concetto molto strano. In effetti qualunque “regola comportamentale” mostra dei limiti applicativi, che spesso vengono alla luce solo in situazioni particolari, molto rare. Per questo la regola spesso assume ai nostri occhi il carattere di inderogabilità. In realtà il volerla applicare sempre e comunque ci conferisce una sicurezza personale immediata («so che si fa sempre così!»), che ci fa sentire meno responsabili e ci fa ragionare meno. Talvolta, tuttavia, questo comportamento ci fa sembrare “ottusi” perché applichiamo le regole senza alcuna ragione reale, ma solo perché «si fa sempre così!».

Pensate ai molti casi presentati, quasi quotidianamente, dai giornali o dai media televisivi e che hanno come esempio perfetto una burocrazia ottusa: pagamenti di pochi centesimi di euro effettuati con procedure che costano decine di euro, certificati di “esistenza in vita” che una persona deve produrre anche se si reca personalmente allo sportello e via dicendo. Per fortuna (o per sfortuna?) gli italiani, anche gli impiegati pubblici, sono dei veri e propri “maghi” nel trovare scorciatoie che permettono di aggirare l’ostacolo o una (cattiva) legge.

Non sempre è così. I popoli anglosassoni, soprattutto negli U.S.A., preferiscono delineare regole ben precise, cui ci si deve tutti attenere, e realizzare servizi di assistenza molto funzionali, le cui procedure vengono costantemente aggiornate, onde potere comprendere progressivamente tutte le situazioni. Insomma loro in certi casi non devono ragionare ma solo applicare, mentre noi ragioniamo e cerchiamo una soluzione migliore (anche rischiando che poi si riveli errata!).

Due regole essenziali Da molti anni svolgo immersioni sui relitti e ho sempre adottato (e imposto) due regole basilari, a mio avviso essenziali per ottenere la sicurezza. La prima è che ogni subacqueo deve sempre portare tutto il gas necessario a effettuare la discesa, la permanenza sul fondo e la decompressione completa. In questo modo anche se perde la cima di risalita può in ogni caso completare la decompressione. Bombole decompressive lasciate sulla cima di risalita o sotto la barca o l’eventuale narghilè dalla superficie devono essere considerati come “optional”, che aiutano a ridurre i tempi totali di decompressione, ma non sono indispensabili. Questa regola manifesta comunque dei limiti. In speleologia subacquea è normale lasciare delle bombole (necessarie per il ritorno) durante l’andata ed essere in questo modo anche più liberi di muoversi.

È un errore? Probabilmente no: per tornare in superficie si è obbligati a ripassare in quei punti ed è possibile recuperare le bombole. Tuttavia così facendo il famoso speleologo Sheck Exley (purtroppo poi deceduto durante l’immersione record a quasi 300 metri di profondità svolta insieme al mitico Jim Bowden) una volta fu costretto a “razionare” le miscele respiratorie perché, a causa di calcoli di autonomia errati, non sarebbe riuscito a tornare nei punti in cui poteva recuperare le bombole e riprendere a respirare liberamente. Non deve essere stato molto bello!

La seconda regola essenziale per le immersioni con decompressione è quella di avere sempre sopra la testa un pallone o un altro segnale che indichi la posizione del subacqueo. Non mi piace affatto l’idea di un subacqueo che si sposta liberamente sott’acqua, magari spinto dalla corrente, mentre l’assistenza di superficie non ha idea di dove possa trovarsi, indipendentemente dal fatto che personalmente mi trovo in acqua o in barca.

Per la verità queste situazioni mi destano qualche preoccupazione anche durante le immersioni “ricreative”, che offrono la tranquillità di potere riaffiorare liberamente. Nei briefing le guide enfatizzano la «eccezionale abilità dimostrata dal capitano della barca nel seguire le bolle dei subacquei in immersione». Tante volte, invece, ho visto alcuni subacquei disperdersi dal gruppo, oppure riemergere tutti assieme … a centinaia di metri dalla barca, con il capitano che li cerca nella zona sbagliata. A chi non è successo?

Mi hanno molto più rassicurato le brave guide sudafricane di Rocktail Bay, che per questo tipo di immersioni trascinano fin dall’inizio un pedagno ben visibile in superficie … altro che bolle!

Decompressione difficile Potete quindi immaginare la mia perplessità quando sul remoto reef di Daedalus, lontano sei ore di navigazione dalla camera iperbarica più vicina, Enzo mi propose di svolgere la decompressione «scivolando lungo la parete, magari spinti dalla corrente, fino a una zona ridossata, dove possiamo montare la stazione decompressiva». Subito mi si drizzarono i capelli sulla testa. Scendere a più di 100 metri di profondità, sul relitto sconosciuto dello Zealot, con più di un’ora di decompressione da fare, divisi in squadre di tre o quattro persone che operano separatamente e dovere nuotare per qualche centinaio di metri prima di trovare la stazione decompressiva? Una follia! Non solo per tutte queste ragioni, ma anche perché con il mare mosso e il forte vento era impensabile lanciare con un reel un pallone di segnalazione dalla profondità di 60-70 metri, a cui iniziavano le tappe decompressive. Le probabilità che la sagola restasse impigliata sulle altissime pareti verticali del versante settentrionale di Daedalus erano troppo elevate. Come responsabile delle attività subacquee già vedevo squadre che si perdevano, subacquei trascinati dalla corrente, assistenti alla disperata ricerca di un segnale… «No, è troppo pericoloso!» fu la mia risposta.

Alla prima immersione sul sito del naufragio calammo un pedagno nella zona in cui doveva essere la nave. L’abilità di Salah, il capitano della Planet Divers, e la nostra fortuna furono tali che alla prima discesa scoprimmo che il pedagno era praticamente pochi metri sopra il relitto della nave! L’operazione di posa era inoltre stata complicata dal mare sempre mosso e dal forte vento da Nord, che rendeva particolarmente infide le acque della punta NW del reef, sulla quale ci trovavamo.

Alla prima immersione scendemmo in quattro, risalendo, come convenuto, sulla cima (un bel “cimone” da 20 mm) del pedagno. Sebbene fosse solo una “toccata e fuga”, la decompressione non fu delle più piacevoli, a causa della corrente (non troppo forte per la verità) ma anche per via delle oscillazioni indotte dalle onde quando permanevamo alle tappe superficiali. Ancora peggio andò a chi era rimasto sul gommone.

Questa prima prova mi convinse che non era possibile effettuare lunghe permanenze sul fondo in questo modo o la decompressione sarebbe stata un “supplizio” per tutti, anche perché le previsioni a breve termine delle condizioni meteomarine indicavano peggioramento.

Per potere svolgere l’impegnativo piano di immersioni previsto dal programma D.W.E.L.L.E.R. - Red Sea 2005 (più di 70 immersioni-uomo sul relitto con 20 ore totali di tempo di fondo) era in qualche modo necessario derogare alla mia seconda regola basilare: bisognava muoversi lungo la parete e raggiungere un punto più riparato per la decompressione. Il tutto trascinando l’ingombrante custodia della videocamera Sony Betacam usata da Pippo Cappellano. Un bel rebus da risolvere.

Il pomeriggio, nell’accogliente dinette della Planet One, con Enzo, Antonello e Pippo stabilimmo di modificare le procedure di immersione.

In parete Ritornammo quindi alla proposta di Enzo, modificandola solo parzialmente, alla luce di quanto visto sul fondo. Daedalus è un posto da sogno. Il suo reef semiaffiorante precipita verticalmente (in alcuni casi persino strapiombando) fino ai 60 metri di profondità. A quella quota il corallo cede il posto a un fondo misto di sabbia, sedimento e grossi massi corallini, con forte pendenza. Già a 40-50 metri di distanza orizzontale dalla parete si superano i 100 metri di profondità. Per questo motivo decidemmo che ogni squadra, lasciato il fondo al momento prefissato, avrebbe dovuto dirigersi subito verso la parete, raggiunta la quale avrebbe iniziato a spostarsi verso Ovest, fino a scavalcare l’estremità NW del reef, continuare verso Sud, per poi rientrare in un’ansa (che iniziava a circa 40 metri di profondità) della parete nella quale era possibile ridossarsi alle onde e al vento. In questa ansa gli assistenti avrebbero montato la stazione decompressiva con il narghilé. Ovviamente (per rispetto della prima regola basilare) la tabella di decompressione standard (in queste immersioni svolte con le tipiche bombole in alluminio da 12 litri - teorici - era la quantità di gas disponibile a limitare i tempi di fondo e di decompressione) sarebbe stata quella senza ossigeno puro.

Per ovviare all’impossibilità di lanciare un pallone e trascinarlo nel tragitto senza che la sagola si impigliasse in sporgenze della parete o nei coralli, pensai di stendere una cima-guida fino alla stazione decompressiva. Alla prima immersione svolta seguendo la parete (una “esplorazione” preliminare) fu evidente che sarebbe stato difficile e che si correva il rischio di danneggiare gli splendidi coralli. Nulla da fare, bisognava svolgere la decompressione in “libera”. È a questo punto che Daedalus decise di darci una mano. Ci piace pensare che abbia voluto ricambiare la nostra premura per evitare anni al suo reef (anche la stazione decompressiva era “ancorata” con morbide cime, a qualche metro di distanza dalla barriera, affinché le pinne o le barre metalliche non danneggiassero le delicate strutture coralline). Seguendo la parete sembrava che il reef avesse predisposto per noi dei riferimenti specifici. Quando incontravamo lo squalo volpe (o i due squali volpe) era giunto il momento di chiamare gli assistenti di superficie a recuperare la videocamera più grande. Un enorme gorgonia posta su una parete strapiombante serviva per verificare se eravamo in ritardo o in anticipo nel tragitto. Allo stesso scopo, alcune decine di metri più a ovest, potevamo usufruire di un folto ramo di corallo nero. Dopo avere doppiato la punta NW, le diverse squadre, che avevano operato a profondità differenti, riconvergevano tutte verso tempi e profondità simili, restando “a vista” grazie alle acque limpide di questo lembo del Mar Rosso.

Il segnale che Daedalus ci offriva per indicarci di essere pronti a “svoltare a sinistra” ed entrare nell’ansa era fantastico: una parete che dai 5 ai 40 metri di profondità era completamente ricoperta di anemoni, popolati da fantasmagorici pesci pagliaccio. La chiamammo “parete di Nemo”, perché sembrava di essere immersi nel film della Disney! E in effetti non mancavano nemmeno gli squali. Più volte i grigi e i martello ci si accostavano durante il nostro pinneggiare verso la stazione decompressiva, mentre Antonello (che per esigenze di documentazione fotografica utilizzava un rebreather) doveva spesso stare attento ai curiosi squali grigi che lo avvicinavano sul relitto, a oltre 100 metri di profondità.

Solo in una giornata Daedalus sembrò tradirci: nessuno vide squali in immersione, nemmeno uno! Sul gommone, mentre tornavamo verso l’ormeggio a Sud, eravamo tristi: dove era finita la nostra “ricompensa”? Ma appena giunti alla barca fummo allietati dalla vista di uno splendido Longimanus, lungo poco più di due metri, che da ore nuotava a pelo d’acqua dietro la poppa. Una mezz’ora di snorkeling con il nostro amico (qualcuno di Roma lo battezzò “Romoletto”) ci fece amare Daedalus in modo passionale. Peccato che Antonello e Maria Pia in quel momento non erano lì per le foto.

Il giorno dopo, oltre all’ormai “solito” squalo volpe e a una tartaruga che venne a curiosare fra le mie decompressive, al ritorno Romoletto era di nuovo dietro la nostra barca. Ovvio che entrammo in acqua di nuovo! Questa volta anche Antonello arrivò in tempo per le fotografie e si tuffò subito in apnea. Ma Romoletto si era ormai infastidito. Stufo della nostra compagnia puntò al “paparazzo” e si avvicinò con aspetto decisamente minaccioso. Antonello brandiva la macchina fotografica a protezione, ma il Longimanus non voleva collaborare. Invece di allontanarsi continuò a cercare di aggirare la macchina fotografica e i flash, per arrivare sul fotografo. Il gioco era durato troppo: Antonello risalì in fretta in barca! In definitiva questa esperienza mi ha fatto cambiare idea: con certe situazioni al contorno, necessarie per garantire la sicurezza di tutti, la decompressione in parete e in “libera” è un vero spasso: quasi una immersione a sé stante, posta al temine di un’altra emozionante immersione.

L’importanza della flessibilità Quando si adotta una “regola comportamentale” bisognerebbe sempre definirne bene i limiti applicativi. Spesso diamo invece per scontata la sua universalità. Su questa estensione arbitraria del campo applicativo della regola si basano molti “inganni” matematici. Valga come esempio generale l’estensione delle regole della geometria piana alla superficie terrestre, che invece è curva. Di conseguenza ci appare strano che la linea retta che unisce due punti sulla carta geografica in realtà è più lunga di una curva (un aeroplano per andare da Roma a New York passa sopra la Gran Bretagna … eppure segue la via più corta). O al contrario ci sembra impossibile che percorrendo tre tratti uguali di cammino con due svolte a 90° interposte si possa ritornare al punto di partenza (per esempio pensate di partire dal Polo Nord e di camminare nelle direzioni Sud – Est – Nord). Ma ci sono anche esempi specifici subacquei. Nelle prove di rescue si insegna a svestire l’infortunato incosciente per portarlo a riva o alla barca più velocemente. In realtà svestire l’infortunato fa solo perdere tempo se la distanza da percorrere è pochissima e a bordo (o a riva) ci sono persone in grado di aiutare nella svestizione e nel primo soccorso. Pochi istruttori evidenziano questo aspetto, probabilmente perché hanno paura che un soccorritore che deve ragionare agisca più lentamente di uno che applichi pedissequamente un metodo. Tuttavia nel soccorso la fretta non è mai una buona consigliera.

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