La nostra storia,
però, riguarda le bolle, e quindi il viaggio inizia con la loro
formazione, cioè al momento del distacco dal fondo, per
terminare circa quattro ore dopo il ritorno in superficie.
Appena incominciamo a risalire, si riduce la pressione esterna
sull’organismo e l’azoto accumulato fuoriesce dai tessuti per
passare nel sangue. Solo il 10% dell’azoto liberato dai
tessuti contribuisce allo sviluppo delle bolle, mentre il
restante 90% rimane sciolto liberamente nel sangue e, quando
raggiunge i polmoni, viene eliminato con la respirazione.
Ci sono due considerazioni da fare. La prima è che parliamo di
percentuale, quindi è normale che nelle immersioni “facili” si
libera poco azoto, e il 10% di poco è quasi niente! Nelle
immersioni impegnative (profonde, ripetitive, multiday) si
libera molto azoto e il 10% di molto è qualcosa che non si può
trascurare. La seconda osservazione è che siccome solo una
piccola parte dell’azoto forma le bolle, questo costituisce un
importante fattore di protezione che riduce il rischio di
incidente anche quando viene commesso qualche errore durante la
decompressione.
Seguiamo il viaggio
delle bolle. Anche adesso, mentre leggete l’articolo, nel vostro
sangue ci sono delle piccole bolle (microbolle) con un diametro
inferiore a 10 micron (un micron è mille volte più piccolo di un
millimetro). In immersione, quando iniziate la risalita, quel
10% dell’azoto che si è liberato dai tessuti bussa alla parete
delle microbolle e cerca di entrare dentro per scroccare un
passaggio verso i polmoni. La microbolla però si oppone
all’ingresso dell’azoto, visto che la poverina ha sudato sette
camicie per raggiungere un delicato equilibrio. Difatti per un
fenomeno ben conosciuto dai fisici (legge di Laplace) e dai
bambini (bolle di sapone), le bolle troppo piccole collassano e
quelle troppo grandi scoppiano. L’azoto però è prepotente, così
alla fine riesce a superare la resistenza della parete ed entra
dentro la microbolla che diventa bolla a tutti gli effetti.
Lungo il viaggio
verso il polmone, nel sangue venoso, la nostra bolla incamera
altro azoto che fuoriesce dai tessuti, oppure si unisce con
altre bolle e diventa sempre più grande. A volte la bolla
diventa troppo grande e... bum! Si rompe. In alcuni casi nascono
delle bolle figlie più piccole, che continuano la loro corsa
verso il polmone. Arrivata qui, la bolla entra in un filtro di
piccoli vasi (capillari) che trattengono le bolle più grandi di
10 micron. È il capolinea. L’azoto esce dalla bolla ormai
bloccata e passa negli alveoli, la parte più piccola del
polmone, per essere scaricato all’esterno con la prima
espirazione. Il viaggio dell’azoto è iniziato al momento del
distacco dal fondo con la liberazione dai tessuti, si è
accelerato nel sangue venoso grazie al passaggio scroccato alle
bolle e finisce con la scintillante ascesa verso la superficie
del mare delle bolle che fuoriescono dal nostro erogatore.
L’azoto è finalmente libero nell’aria!
Pericoli
nelle immersioni più impegnative
Tutto qui? Per fortuna sì, di solito la storia è
a lieto fine. Quando però l’immersione è impegnativa o c’è un
errore in decompressione, le bolle che arrivano al polmone sono
tante e grosse. Può succedere che la bolla viene riconosciuta
come un nemico dal nostro sistema di difesa e attaccata. Peggio
ancora se la grossa e goffa bolla malauguratamente gratta la
parete di un vaso sanguigno e lo danneggia: si liberano delle
sostanze chimiche che provocano un’infiammazione. I segni sono
quelli classici della malattia da decompressione: rossore,
gonfiore, dolore, difficoltà a muovere la parte danneggiata. Non
c’è un rapporto diretto tra la quantità o la dimensione della
bolla e il danno. In genere è più pericolosa la grandezza
delle bolle che non il loro numero. La probabilità di un
incidente da decompressione supera il 3% (le tabelle U.S. Navy
per le immersioni quadre hanno, in media, un rischio del 2.2%)
quando il diametro delle bolle supera i 120 micron nelle
immersioni entro i 30 metri di profondità o gli 80 micron nelle
immersioni oltre i 30 metri. Ergo: le immersioni più profonde,
respirando aria, sono più a rischio perché anche bolle di azoto
meno grandi possono fare danno. Meditate gente! Se proprio vi
piace l’immersione profonda, imparate a utilizzare le miscele e
dedicatevi all’immersione tecnica. Immergersi spesso (più di 40
immersioni per anno) comporta uno schiacciamento delle
microbolle e quindi si riduce l’“innesco” per la formazione
delle bolle grandi. Inoltre, onore ai corallari. Molto prima che
noi medici capissimo qualcosa sul meccanismo della malattia da
decompressione, essi avevano già imparato a utilizzare alcuni
accorgimenti che aumentano la sicurezza dell’immersione:
discesa rapida (almeno 20 metri al minuto); distacco lento dal
fondo, perché è in questo momento che si formano le prime bolle;
tappe profonde che servono per scaricare un po’ di azoto; negli
ultimi 15 metri, risalita molto lenta. Riconosciuto ciò, non c’è
dubbio però che non esiste l’immunità dall’incidente da
decompressione. È solo un problema di statistica. Quale rischio
siete disposti ad accettare? Numeri tipo 2%, 3%, 5% di fatto non
ci dicono nulla. È più interessante prevedere quali saranno le
2, 3, 5 immersioni su 100 nelle quali si potrebbe avere un
problema. |