Ricapitolando: secondo il modello compartimentale classico (ad
una fase) in risalita tutto il gas inerte diffonde disciolto nel
sangue e, salvo errori nella decompressione, non è previsto il
passaggio di gas in fase libera (cioè nelle microbolle
preesistenti), invece secondo i modelli basati sul controllo
delle bolle (a due fasi) in risalita almeno una parte del gas
inerte diffonde sempre in fase libera.
Da questo diverso approccio derivano diverse procedure di
decompressione: se concordiamo con l’importanza di evitare
l’innesco e la crescita incontrollata delle bolle, ne deriva che
il distacco dal fondo deve essere graduale ed emerge la
necessità di calcolare una o più soste di sicurezza da
posizionare prima della profondità dove è prevista la diffusione
di un volume critico di gas inerte dai compartimenti al sangue
venoso (gradiente critico).
Va precisato che le soste di sicurezza vanno eseguite alla
giusta profondità: ad una quota eccessivamente ed inutilmente
profonda non c’è un gradiente sufficiente per favorire la
liberazione del gas inerte dai compartimenti; ad una quota
troppo superficiale le soste non prevengono la formazione delle
bolle.
I modelli basati sul controllo delle bolle suppongono che a
livello ematico sono sempre presenti, anche a pressione
atmosferica normale, microbolle di dimensioni inferiori ai 10
micron visto che oltre tali dimensioni le bolle sono filtrate
dal microcircolo polmonare, a meno che non sia presente uno
shunt destro – sinistro (che è un passaggio anomalo di sangue
venoso ricco di bolle nel sangue arterioso senza che le bolle
siano state filtrate a livello polmonare, di solito lo shunt
è a livello cardiaco per la presenza di un setto
interatriale pervio oppure può avvenire a livello polmonare).
Le microbolle si formano per cavitazione a livello delle
turbolenze nel flusso ematico; per microtraumi dei capillari;
per tribonuclezione dovuta alla differenza di pressione tra il
gas disciolto nel sangue e quello presente nei tessuti
circostanti oppure sono il residuo di precedenti immersioni. Per
quest’ultimo aspetto, il modello compartimentale prevede che
dopo un’immersione i compartimenti si desaturano completamente
dal gas inerte in dodici ore e non è contemplata la presenza di
microbolle circolanti nel sangue in condizioni ordinarie; il
modello per il controllo delle bolle invece prevede che dopo
un’immersione il “patrimonio” di microbolle, presente
nell’organismo in condizioni basali, si rigenera in un tempo
variabile da due a ventuno giorni.
L’esistenza delle microbolle è criticata perché esse non sono
mai state riscontrate in vivo, inoltre il principale modello per
il controllo delle bolle, definito Varying Permeability Model
(VPM), è stato criticato tra l’altro perché basato sullo
studio di microbolle rilevate solo in studi su gelatina e non in
fase acquosa; questo problema appare comunque risolto perché una
successiva elaborazione del modello, definita Reduced
Gradient Bubble Model (RGBM), è basata sullo studio delle
microbolle in fase acquosa.
La reale esistenza delle microbolle in condizioni reali è
spiegabile solo con studi di ingegneria dei fluidi. Secondo
questi studi le microbolle di gas inerte sono rivestite e
stabilizzate da molecole superficiali attive (surfattante),
costituite da una estremità idrofilica (proteine) rivolta
verso il
plasma o i liquidi interstiziali ed una estremità idrofobica
(fosfolipidi) rivolta verso il gas inerte, cioè verso la
superficie della bolla (1).
Le molecole di surfattante sono unite tra di loro da legami
elettrostatici deboli.
Durante la discesa, con l’aumentare della pressione idrostatica,
le molecole di surfattante vengono compresse l’una contro
l’altra; si riduce il raggio della bolla ed aumenta la pressione
interna alla bolla (legge di Laplace: la pressione interna di
una bolla è inversamente proporzionale al raggio); aumenta lo
spessore dell’interfaccia gas inerte – liquido e si riducono gli
scambi gassosi: in definitiva la microbolla si stabilizza fino a
diventare impermeabile alla diffusione del gas e quindi più
problematica ai fini della decompressione.
Durante la discesa alcune molecole di surfattante, oltre una
certa compressione e quando viene superata la loro capacità
elastica (isteresi), “saltano” via dall’interfaccia e,
secondo l’ipotesi di Kunkle, si perdono nel liquido circostante
oppure, secondo l’ipotesi di Yount, rimangono legate con legami
elettrostatici in uno strato superficiale della bolla stessa (reservoir).
Nei giorni successivi all’immersione (2-21 gg.) il surfattante
sarà recuperato nell’interfaccia gas inerte – liquido e la
microbolla ritornerà alla sua dimensione originale ma con una
minore elasticità (effetto “palla da biliardo”).
La stabilizzazione delle microbolle in fase di discesa è
direttamente proporzionale al gradiente della pressione
idrostatica: più rapida è la discesa, maggiore è la riduzione
del raggio della bolla, più questa sarà stabile così in risalita
le soste di sicurezza saranno meno profonde ed il tempo di
decompressione sarà ridotto.
Se invece la discesa è lenta, il gradiente di pressione
idrostatica non è sufficiente per una significativa riduzione
del raggio della bolla: più il raggio sarà grande, minore sarà
la pressione interna della bolla e maggiore la quantità di gas
inerte che diffonderà dai tessuti nella bolla.
La bolla, una volta innescata, aumenterà di dimensioni durante
la risalita, si potrà dividere in più bolle (visualizzate
strumentalmente con l’aspetto della bolla “madre” ed un rosario
di bolle più piccole) che spesso confluiscono con altre bolle:
in definitiva aumenta la probabilità di incidente da
decompressione.
Mentre il modello basato sul controllo delle bolle auspica,
quindi, una discesa rapida e diretta verso la massima profondità
pianificata, il modello compartimentale classico prevede una
velocità di discesa non superiore a 23 metri al minuto, ciò per
evitare che si instauri un gradiente che acceleri la saturazione
dei compartimenti veloci e medio – lenti (2).
Un’ulteriore critica al modello per il controllo delle bolle è
basata sulla constatazione fisica (legge di Laplace) che una
nanobolla del raggio di 10 nm avrebbe una pressione interna di
140 bar circa e dovrebbe rapidamente dissolversi.
Questo dubbio è reale solo se si assume che la bolla abbia una
forma sferica.
Recentemente, però, studi di ingegneria dei fluidi (3) hanno
evidenziato la presenza di bolle schiacciate con un aspetto
ellittico sull’interfaccia solido-fluido (ipotizziamo che ciò
valga anche per l’endotelio).
In tal caso il raggio della nanobolla aumenta, la pressione
interna si riduce e la nanobolla si stabilizza. Riprendendo
l’esempio di prima: una nanobolla sferica con un raggio di 10 nm
avrebbe una pressione interna di 140 bar incompatibile con una
persistenza duratura ma se ipotizziamo la stessa bolla
schiacciata contro l’endotelio con il raggio aumentato, per
esempio, a 100 nm allora la pressione interna scenderà a 14 bar
ed essa sarà più stabile nel tempo.
In merito al meccanismo di formazione delle microbolle, se
ipotizziamo che i nuclei gassosi (o microbolle) originano a
livello dell’interstizio tra due vicine cellule endoteliali e
che l’interfaccia liquido – gas sia concavo invece che convesso
allora, in base alle leggi fisiche, risulta che la pressione del
gas all’interno del nucleo gassoso è inferiore rispetto a quella
del gas disciolto nel liquido circostante, quindi il gas inerte
tenderà a diffondere dal sangue e dai tessuti verso l’interno
del nucleo stesso.
Il nucleo rimane stabile fin quando la sua superficie resta
concava poi, quando la pressione del gas interno destabilizza la
superficie e questa diventa convessa, la bolla crescerà
rimanendo ancora per un po’ stabile fin quando resta schiacciata
lungo la parete endoteliale.
Comunque quando la diffusione del gas inerte dai compartimenti
al sangue supera il volume critico per l’innesco delle bolle, il
gas entra abbondantemente in fase libera e si ha il distacco
della bolla dalla parete endoteliale; nel sangue venoso la bolla
assume istantaneamente la forma sferica e, da questo momento,
aumenta la probabilità di un incidente da decompressione.
Lo studio citato supporta un’importanza prioritaria dei nuclei
interstiziali mentre il surfattante gioca un ruolo secondario di
stabilizzazione dell’interfaccia gas-liquido: a concentrazioni
maggiori di surfattante l’interfaccia rimane concavo più a
lungo, il nucleo è più stabile ed aumenta il gradiente
necessario per innescare la liberazione delle bolle nel sangue
venoso.
Il meccanismo di formazione delle bolle, prima sintetizzato,
consente di evidenziare un’altra differenza significativa tra il
modello per il controllo delle bolle ed il modello
compartimentale.
Quest’ultimo è essenzialmente un modello perfusionale che
prevede un tempo di diffusione pressoché virtuale. Un’ipotesi da
supportare sperimentalmente, è che il gas inerte nel momento in
cui diffonde dai tessuti nel sangue attraverso la parete
endoteliale, finisca nei nuclei interstiziali (per il fatto che
la pressione del gas all’interno dei nuclei è inferiore rispetto
all’esterno, grazie all’interfaccia gas-liquido concava) oppure
nelle microbolle adese alla superficie endoteliale.
Se ciò è verosimile, allora il tempo di diffusione del gas
inerte dai compartimenti al sangue venoso non sarebbe più
virtuale e verrebbero falsati i tempi di emisaturazione dei
compartimenti sui quali è essenzialmente basato il calcolo della
decompressione nel modello compartimentale.
Ritornando all’analisi del modello per il controllo delle bolle,
la ricerca ha evidenziato che il picco delle bolle si manifesta
dai 20 minuti fino alle 2 ore dopo l’emersione, poi decresce
per ridursi significativamente dopo le quattro ore: ne consegue
che un intervallo di superficie inferiore alle due ore comporta
uno stress decompressivo maggiore nell’immersione ripetitiva.
In generale nelle immersioni successive alla prima è
particolarmente consigliata la discesa rapida, in modo da creare
un gradiente di pressione idrostatica capace di ridurre
significativamente il raggio delle bolle di gas inerte residuate
dopo la prima immersione.
Un interessante corollario riguarda la frequenza delle
immersioni: un subacqueo che si immerge quotidianamente (cinque
giorni su sette) ed esegue costantemente discese rapide e
dirette verso la massima profondità pianificata, ha un
“patrimonio” di microbolle in circolo di quantità e dimensioni
ridotte e, a parità di stress decompressivo, ha una probabilità
significativamente inferiore di subire un incidente da
decompressione rispetto ad un subacqueo che si immerge
saltuariamente (la differenza è significativa se c’è un
intervallo superiore
a 21 giorni tra due immersioni).
Per il calcolo del profilo di decompressione è importante anche
la scelta della miscela respiratoria appropriata.
Nell’immersione in basso fondale in genere viene utilizzata
l’aria comunque nel caso di immersione con miscela contenete
elio l’orientamento attuale, comunque suggerito dall’Autore, è
di utilizzare sul fondo una miscela respiratoria con una
pressione parziale di 1,2 – 1,4 bar di ossigeno; se invece dell’Eliox
si utilizza una miscela trimix è consigliata una pressione
parziale di 2,4 - 2,5 bar di azoto che corrisponde ad un
equivalente narcotico in aria di circa 21 metri (20 – 21.6 mt) e
per il resto elio.
È altresì fondamentale calcolare che la pressione parziale
dell’ossigeno nella miscela respiratoria rimanga sempre
superiore almeno ai 0,5 bar alle quote di cambio della miscela
decompressiva o alle soste profonde.
E’ sconsigliato l’uso di miscele respiratorie con pressione
parziale di ossigeno inferiore ai parametri indicati, sul fondo
o durante la risalita, perché si riduce la tolleranza
dell’organismo verso errori di decompressione.
È altresì sconsigliato l’utilizzo di una pressione parziale di
ossigeno superiore ad 1,6 bar nella miscela respiratoria
decompressiva perché l’ossigeno di per sé ha un discreto peso
molecolare ed è possibile la formazione di “bolle di ossigeno”
quando l’offerta supera il fabbisogno del metabolismo cellulare.
Inoltre l’eccesso di ossigeno facilita la produzione di radicali
liberi, altamente reattivi, in quantità superiore alla capacità
di compenso dei sistemi antiossidanti intra ed extracellulari e
ciò comporta nell’immediato una vasocostrizione che riduce
l’eliminazione del gas inerte e, nel tempo, un danno ossidativo
all’endotelio vasale che è l’interfaccia fondamentale nei
processi di scambio gassoso tra i tessuti ed il sangue venoso
oltre ad avere un ruolo essenziale nella genesi dell’incidente
da decompressione.
L’ipotesi sulla quale si sta lavorando è che una pressione
parziale elevata di elio ed una pressione parziale di ossigeno
nei limiti indicati per la miscela di fondo (1,2 - 1,4 bar)
abbiano invece un effetto protettivo sulla barriera endoteliale,
tramite meccanismi che sono ancora da verificare: questo
supporta favorevolmente la consuetudine nell’immersione
industriale di utilizzare l’Eliox.
In merito all’accessibilità ai modelli basati sul controllo
delle bolle, l’ultima versione del Varying Permeability Model
(VPM) è utilizzata dal software V-Planner acquisibile
tramite Internet ad un costo contenuto. In origine (1993) è
stato essenzialmente studiato da un gruppo di ricercatori e
subacquei tecnici che hanno cooperato volontariamente attraverso
Internet ed era un modello elaborato per immersioni con miscela
gassosa contenente elio fino ad una profondità di 70
metri.
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