L’istruttore
deve essere realista ma rassicurante e spiegare che un
tranquillo subacqueo ricreativo non è una sorta di scatenato
Rambo, un Indiana Jones alla ricerca di sensazioni forti ed
estreme, un incosciente che si espone a situazioni rischiose.
Deve poter fornire dati che dimostrino che l’attività subacquea
è, se ben gestita, un’attività sicura, senza grandi rischi. Deve
quindi essere aggiornato circa le novità tecniche ma anche sulle
nuove ricerche mediche, quelle della DAN in primo luogo, e in
generale su tutto quanto riguarda il progressivo evolversi di
uno sport come la subacquea, relativamente giovane e in
continuo “divenire”.
E’ comunque
comprensibile che alcuni allievi, quelli appunto più cauti e
titubanti, trovino una soluzione e un conforto “attaccandosi” al
proprio istruttore o al dive master o all’amico “esperto” che li
accompagna in immersione e a cui viene delegata, nel vero senso
della parola, la gestione della propria immersione e quindi
della propria sicurezza.
Per capire cosa si
intenda per “immergersi in sicurezza” dopo la conclusione di un
corso subacqueo, di qualsiasi livello, è utile e illuminante
analizzare alcuni aspetti che si vengono spesso a creare durante
il corso stesso.
E’ prassi normale,
e direi inevitabile, che nelle prime fasi di un corso per
subacquei, soprattutto di un primo livello, l’istruttore porti
l’attenzione dell’allievo sulle diversità che esistono tra lo
stare sopra o sotto l’acqua. Durante il corso viene
correttamente sottolineato che il subacqueo andrà ad operare in
un ambiente non “suo”, in qualche modo “innaturale” e per
rendere possibile affrontare questo ambiente “diverso” verranno
utilizzate attrezzature ormai ben collaudate ed affidabili ma
pur sempre suscettibili di malfunzionamenti; che dovranno esser
rispettate scrupolosamente varie procedure rese
necessarie proprio dall’ambiente subacqueo, dalle sue
caratteristiche e da come queste interagiscono con la fisica e
la chimica del nostro organismo “terrestre”; che si dovrà
prender coscienza dell’esistenza di problematiche, incidenti,
eccetera cui potremmo andare incontro e che sono propri
dell’attività subacquea.
Tutto
questo è fondamentalmente corretto, però…
Un simile
comportamento è naturalmente accettabile nelle primissime
immersioni di un allievo ma, in seguito e in maniera progressiva
ci deve essere una evoluzione, un vero e proprio “svezzamento”
che porti gradualmente all’autonomia e quindi all’autogestione
della propria immersione.
Chi non riesce,
spesso non per suoi deficit assoluti ma piuttosto perché non gli
sono stati forniti adeguati mezzi, preparazione e conoscenze per
arrivare a questa “maturazione”, diventa un subacqueo insicuro,
potenzialmente pericoloso per se e per gli altri.
In modo analogo e
con conseguenze equiparabili , una esagerata “faciloneria”
trasmessa dall’istruttore come anche un diverso e opposto
approccio alla subacquea da parte di un allievo caratterialmente
più “aggressivo” rispetto al timido e timoroso neofita sopra
descritto - il classico soggetto esuberante, che si lancia oltre
l’ostacolo ignorando cosa possa esserci dietro l’ostacolo stesso
- possono portare ad una attività subacquea potenzialmente
pericolosa.
I soggetti
esuberanti e apparentemente decisi e convinti sono più difficili
da riconoscere e spesso da gestire, perché, contrariamente agli
altri, sono nascosti dietro una maschera di sicurezza che però
spesso è solo apparente.
Comunque, chi tra
di noi non preferisce immergersi, specie se l’immersione
presenta un certo impegno, con un compagno preparato ed esperto
piuttosto che con un subacqueo insicuro e timoroso o con un
fanfarone che alla prima difficoltà si mette e ci mette nei
guai?
A questo proposito
in molti manuali per istruttori subacquei sono descritti, in
maniera simpatica e scherzosa (ma assolutamente verosimile) i
vari atteggiamenti che si possono riscontrare tra i partecipanti
ad una uscita in mare, valutabili sia all’imbarco che durante il
trasferimento verso il punto di immersione: il super
tecnologico, il maniaco metodico, il silenzioso, il
chiacchierone, lo sbruffone, il distratto, il nervoso, eccetera.
Tutti approcci all’immersione diversi ma che un istruttore o una
guida attenti devono riuscire a percepire e quindi gestire.
Dov’è
la soluzione? Il punto di partenza per impedire che la
formazione di un allievo presenti “falle” potenzialmente
pericolose nell’ottica di una buona e “sicura” gestione
dell’immersione, vuoi che si tratti di forme di “dipendenza” che
di “valutazioni al ribasso” nell’andar sott’acqua, e che questi
atteggiamenti diventino una pericolosa consuetudine, si trova
nel “come” il corso stesso, di qualsiasi livello esso sia, è
stato impostato e sviluppato.
La sicurezza del
“dopo corso” nasce durante lo svolgimento del corso stesso e da
come determinate nozioni e “filosofie” vengono presentate,
insegnate e poi fatte proprie dall’allievo.
E’ pertanto
fondamentale ribadire l’importanza e la necessità di corsi
adeguatamente strutturati, di durata ragionevole ma mai
frettolosa, che affrontino i vari aspetti con completezza,
soddisfacendo la curiosità e i dubbi dell’allievo: non si deve
mai cadere nella tentazione di accelerare i tempi col fine di
“monetizzare” l’attività di un allievo appena brevettato.
Vale sia per la
parte teorica che per la pratica in piscina e in mare: anche le
“noiose” sessioni di “acquaticità” hanno un loro perché!
Ugualmente
importante è curare la parte “psicologica” dell’andar
sott’acqua, cercare di far comprendere quali sono i meccanismi
della paura, dell’ansia, dell’approccio mentale all’immersione,
sottolineando che determinate azioni e reazioni vanno comunque
interpretate nella considerazione che operiamo in un ambiente
che non è il nostro naturale.
Insegnare una
“mentalità” subacquea è quindi altrettanto importante, forse
anche più che insegnare l’uso delle varie attrezzature e delle
procedure da applicare. In altre parole, un corso di subacquea
deve essere qualcosa che va oltre un mero insegnamento tecnico.
Nei nostri corsi
ci piace sempre ricordare che la subacquea è un’attività che si
pratica molto di più col cervello piuttosto che col fisico. La
componente più importante dell’attrezzatura è la nostra “testa”.
Ecco perché mi
piace ribadire che “andar sott’acqua” è una “filosofia”: ben mi
capiranno gli intrepidi veri appassionati che, in pieno inverno,
affrontano il freddo, il disagio, la lunga preparazione in
cambio di relativamente pochi minuti sotto il mare!
Comunque
passiamo oltre l’aspetto poetico…
Un corso ben
programmato e strutturato deve comunque porsi una scadenza in
termini di durata, ma questi termini non possono essere
forzatamente troppo “stretti” perché vincolati a scadenze
esterne al corso stesso: per rilasciare un brevetto “eticamente
e deontologicamente” valido si deve tener conto delle esigenze e
delle capacità, di apprendimento, di comprensione e di
“metabolizzazione” di ogni allievo.
Il concetto deve
essere: “ADDESTRAMENTO PERSONALIZZATO”.
Ogni allievo ha
una propria storia, una sua precedente esperienza, proprie
aspettative, proprie motivazioni, propri limiti. Vanno rimossi
eventuali preconcetti, falsi miti, “sentito dire”
approssimativi. Il raggiungimento degli standard didattici (ogni
scuola ne ha di leggermente diversi, ma il fine è
sostanzialmente lo stesso) richiede tempi diversi da persona a
persona, a volte anche tanto diversi. L’istruttore deve operare
scelte che possano consentire a tutti il migliore completamento
del percorso.
Andar sott’acqua
con un autorespiratore è estremamente semplice: è il gestire
l’inaspettato che diventa complicato se non si ha una buona
conoscenza e coscienza sia della materia che di noi stessi, del
nostro corpo e anche della nostra “emotività”. Riuscire a
inquadrare bene cosa sia l’imprevisto, dove e come possa essere
nato, è il miglior sistema in primo luogo per evitarlo, poi
eventualmente, in seconda battuta, per risolverlo.
Professionalità
(che non significa necessariamente professionismo) e sensibilità
dell’istruttore sono fondamentali. Il risultato di un corso deve
essere un subacqueo istruito, cosciente, equilibrato,
consapevole, cioè un vero subacqueo “autonomo”, un subacqueo in
grado di immergersi nella massima sicurezza possibile.
E’ quindi evidente
che l’equazione è: CONOSCENZA = PREVENZIONE = SICUREZZA ed è
necessario che ognuno sia messo in grado di ricevere questa
conoscenza, farla propria per poi applicarla.
Il caso limite,
anche se quasi sempre le responsabilità sono più dell’istruttore
che dell’allievo, è il “rifiutare” di concedere un brevetto, ove
si ritenga una persona non adeguata e soprattutto fuori da
ragionevoli parametri che possano in ultima istanza pregiudicare
la sicurezza. Caso rarissimo ma non deve essere un tabù.
Corsi
esageratamente brevi, svolti e conclusi in un paio di giorni di
vacanza in un mare tropicale, sono utili e validi ma solo come
“inizio”: la maggior parte delle volte non sono sufficienti per
un’adeguata preparazione che rappresenti e insegni l’attività
subacquea per quella che è: un “giochino” adatto a tutti,
praticabile da tutti e a tutte le età, ma che deve essere
affrontato con coscienza e cervello.
Chiunque pratichi
lo sport subacqueo ha ben presente quali sono le differenze –
soprattutto ambientali (luce, temperatura, colori, eccetera) che
si ripercuotono sia psicologicamente che come impegno fisico
(muta più spessa e opprimente, cappuccio, più zavorra, eccetera)
– tra una immersione in un mare tropicale e il nostro
Mediterraneo. Un tuffo alle Maldive è ben diverso da uno nel
Tirreno magari fatto non in piena estate!
Concludendo, è
corretto affermare che la sicurezza del “dopo corso” nasce
nell’ambito del corso stesso, da come ogni allievo è stato
preparato indipendentemente dalla sua situazione di partenza, ma
chiaramente tenendo conto di questa.
Immergersi in
maniera sicura richiede il rispetto di un principio: non
trovarsi mai a dover dire “NON LO SAPEVO” oppure “NON ME
L’ASPETTAVO”.
In ogni situazione
anomala il trucco è: FERMATI, PENSA, AGISCI. Semplice ma bisogna
essere “attrezzati”! |