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di Tecnica & Medicina

 

 

110. IL VIAGGIO DI UNA BOLLA - Approfondimento sulla decompressione  

di Pasquale Longobardi (*)

Che cosa è una bolla? Perché i subacquei temono le bolle? Quando si formano le bolle? La risposta più probabile è: "le bolle si formano quando non si rispetta la velocità massima di risalita e quando si saltano le tappe di decompressione". Sono in molti a pensare che rispettando le tabelle o le indicazioni del computer si evita la formazione delle bolle e che queste si generano solo in seguito a un errore. Del resto, su questo presupposto sono basate le tabelle U.S. Navy (elaborate inizialmente dal professor Haldane) e la maggior parte dei computer in commercio basati sui programmi del professor Buhlmann o citati con il termine “Haldane modificato”, ai quali affidiamo la nostra decompressione.

Un’altra idea molto diffusa è che la malattia da decompressione è dovuta al fatto che le bolle vanno a occludere meccanicamente un vaso sanguigno. Semplice e lineare, vero? Certamente, però ho un dubbio: se ci immergiamo in coppia e facciamo lo stesso errore in risalita, l’eventuale incidente dovrebbe colpire entrambi. Invece, l’esperienza insegna che, a parità di errore, io posso avere dei problemi e tu no. Perché? Inoltre, ho un altro dubbio: se le bolle bloccano il passaggio del sangue, il danno si dovrebbe manifestare subito, visto che i tessuti a valle dell’ostruzione soffrono immediatamente per la carenza di ossigeno e zuccheri. Invece sempre l’esperienza insegna che la malattia da decompressione si può manifestare nelle ventiquattro ore successive all’immersione e anche oltre. Perché?  

Questo articolo è dedicato a un approfondimento sull’argomento della decompressione. In un viaggio immaginario visualizzeremo la nascita, la crescita e il destino delle bolle nell’organismo durante un’immersione. Decidiamo: quando inizia il nostro racconto? In generale, un’immersione inizia quando ci viene l’idea di farla: è bella tutta la fase della pianificazione e della preparazione. Ai fini del calcolo della decompressione, è importante la durata dell’immersione dall’entrata in acqua fino al distacco dal fondo o, come alcuni fanno per prudenza, fino alla prima tappa. Sempre in generale, un’immersione finisce con il ritorno in superficie, eventualmente con la lieta appendice di un lauto piatto di spaghetti.

La nostra storia, però, riguarda le bolle, e quindi il viaggio inizia con la loro formazione, cioè al momento del distacco dal fondo, per terminare circa quattro ore dopo il ritorno in superficie. Appena incominciamo a risalire, si riduce la pressione esterna sull’organismo e l’azoto accumulato fuoriesce dai tessuti per passare nel sangue. Solo il 10% dell’azoto liberato dai tessuti contribuisce allo sviluppo delle bolle, mentre il restante 90% rimane sciolto liberamente nel sangue e, quando raggiunge i polmoni, viene eliminato con la respirazione.
Ci sono due considerazioni da fare. La prima è che parliamo di percentuale, quindi è normale che nelle immersioni “facili” si libera poco azoto, e il 10% di poco è quasi niente! Nelle immersioni impegnative (profonde, ripetitive, multiday) si libera molto azoto e il 10% di molto è qualcosa che non si può trascurare. La seconda osservazione è che siccome solo una piccola parte dell’azoto forma le bolle, questo costituisce un importante fattore di protezione che riduce il rischio di incidente anche quando viene commesso qualche errore durante la decompressione.

Seguiamo il viaggio delle bolle. Anche adesso, mentre leggete l’articolo, nel vostro sangue ci sono delle piccole bolle (microbolle) con un diametro inferiore a 10 micron (un micron è mille volte più piccolo di un millimetro). In immersione, quando iniziate la risalita, quel 10% dell’azoto che si è liberato dai tessuti bussa alla parete delle microbolle e cerca di entrare dentro per scroccare un passaggio verso i polmoni. La microbolla però si oppone all’ingresso dell’azoto, visto che la poverina ha sudato sette camicie per raggiungere un delicato equilibrio. Difatti per un fenomeno ben conosciuto dai fisici (legge di Laplace) e dai bambini (bolle di sapone), le bolle troppo piccole collassano e quelle troppo grandi scoppiano. L’azoto però è prepotente, così alla fine riesce a superare la resistenza della parete ed entra dentro la microbolla che diventa bolla a tutti gli effetti.

Lungo il viaggio verso il polmone, nel sangue venoso, la nostra bolla incamera altro azoto che fuoriesce dai tessuti, oppure si unisce con altre bolle e diventa sempre più grande. A volte la bolla diventa troppo grande e... bum! Si rompe. In alcuni casi nascono delle bolle figlie più piccole, che continuano la loro corsa verso il polmone. Arrivata qui, la bolla entra in un filtro di piccoli vasi (capillari) che trattengono le bolle più grandi di 10 micron. È il capolinea. L’azoto esce dalla bolla ormai bloccata e passa negli alveoli, la parte più piccola del polmone, per essere scaricato all’esterno con la prima espirazione. Il viaggio dell’azoto è iniziato al momento del distacco dal fondo con la liberazione dai tessuti, si è accelerato nel sangue venoso grazie al passaggio scroccato alle bolle e finisce con la scintillante ascesa verso la superficie del mare delle bolle che fuoriescono dal nostro erogatore. L’azoto è finalmente libero nell’aria!

Pericoli nelle immersioni più impegnative

Tutto qui? Per fortuna sì, di solito la storia è a lieto fine. Quando però l’immersione è impegnativa o c’è un errore in decompressione, le bolle che arrivano al polmone sono tante e grosse. Può succedere che la bolla viene riconosciuta come un nemico dal nostro sistema di difesa e attaccata. Peggio ancora se la grossa e goffa bolla malauguratamente gratta la parete di un vaso sanguigno e lo danneggia: si liberano delle sostanze chimiche che provocano un’infiammazione. I segni sono quelli classici della malattia da decompressione: rossore, gonfiore, dolore, difficoltà a muovere la parte danneggiata. Non c’è un rapporto diretto tra la quantità o la dimensione della bolla e il danno. In genere è più pericolosa la grandezza delle bolle che non il loro numero. La probabilità di un incidente da decompressione supera il 3% (le tabelle U.S. Navy per le immersioni quadre hanno, in media, un rischio del 2.2%) quando il diametro delle bolle supera i 120 micron nelle immersioni entro i 30 metri di profondità o gli 80 micron nelle immersioni oltre i 30 metri. Ergo: le immersioni più profonde, respirando aria, sono più a rischio perché anche bolle di azoto meno grandi possono fare danno. Meditate gente! Se proprio vi piace l’immersione profonda, imparate a utilizzare le miscele e dedicatevi all’immersione tecnica. Immergersi spesso (più di 40 immersioni per anno) comporta uno schiacciamento delle microbolle e quindi si riduce l’“innesco” per la formazione delle bolle grandi. Inoltre, onore ai corallari. Molto prima che noi medici capissimo qualcosa sul meccanismo della malattia da decompressione, essi avevano già imparato a utilizzare alcuni accorgimenti che aumentano la sicurezza dell’immersione: discesa rapida (almeno 20 metri al minuto); distacco lento dal fondo, perché è in questo momento che si formano le prime bolle; tappe profonde che servono per scaricare un po’ di azoto; negli ultimi 15 metri, risalita molto lenta. Riconosciuto ciò, non c’è dubbio però che non esiste l’immunità dall’incidente da decompressione. È solo un problema di statistica. Quale rischio siete disposti ad accettare? Numeri tipo 2%, 3%, 5% di fatto non ci dicono nulla. È più interessante prevedere quali saranno le 2, 3, 5 immersioni su 100 nelle quali si potrebbe avere un problema.

(*) Il Dott. Pasquale Longobardi è il Direttore Sanitario del Centro Iperbarico di Ravenna. Da oltre vent’anni segue con dedizione i pazienti e coordina il personale medico e sanitario del Centro con rigore e passione. Istruttore subacqueo 3 stelle CMAS e protagonista indiscusso della ricerca sulla medicina iperbarica, ha sviluppato negli anni competenze e conoscenze apprezzate in numerosi simposi e conferenze scientifiche in tutto il mondo. La sua notorietà anche a livello internazionale è legata soprattutto alla sua straordinaria conoscenza nell’ambito della vulnologia e della medicina subacquea che rappresenta anche una sua grande passione personale. Nel mondo delle immersioni il dott. Longobardi è un punto di riferimento per esperti del mondo scientifico e per gli appassionati: nel 2009 è stato premiato a Ustica con il Tridente d’Oro, riconoscimento noto anche come “il nobel della Cultura del mare”.

Nato a Napoli nel 1961, ma ravennate di adozione ha coniugato nel suo stile professionale il calore del sud al pragmatismo della “cultura del fare” tipici della Romagna. Nonostante i numerosi impegni scientifici a livello internazionale trova sempre il tempo per dedicarsi ai suoi pazienti e tenere sotto controllo i casi più complessi.

 

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